Il posto in cui vanno a dormire le limousine, come si chiede il miliardario Eric Packer di Cosmopolis senza darsi un risposta, a Cannes ce l’ha indicato Holy Motors di Carax: è un garage dove le auto possono lamentarsi di noi umani e magari compatirci. E gli autobus? Dove vanno a dormire gli autobus? E soprattutto: se gli autobus potessero parlare, cosa direbbero di tutto ciò che hanno sentito durante il giorno? Di tutte le persone salite e scese, di tutte le cose dette, di tutte le liti osservate e di tutta la vita consumata? Probabilmente anche loro, una volta al deposito, si sfogherebbero e si confiderebbero opinioni sull’umanità.
Perché su un autobus la città vive, si muove, parla e sovente straparla. E attraverso i suoi finestrini, la città scorre, si accatasta all’orizzonte, strato per strato, anche se brutta e sporca può affascinare e sedurre. Se poi quella città è New York, allora non è semplicemente un insieme di case e strade, non è un semplice panorama, ma è il luogo per eccellenza dell’immaginario occidentale, una forma estetica più che un agglomerato urbano, ed è la nostra città, il posto dove ciascuno può riconoscersi e trovare una propria identità. Il noi e l’io, per l’appunto.
Un passo a fianco del nichilismo di Cronenberg, della sua Manhattan di cartapesta, inerme vuota insensibile, osservata come un teatrino degli orrori attraverso il vetro oscurato di un limo, il Bronx di Gondry ritrova nel sobborgo l’umanità perduta dal centro, inscenando su un autobus di linea che viaggia dalla mattina alla sera una commedia umana di giovani volti e giovani sentimenti. Il viaggio che nell’ultimo giorno di scuola riporta a casa un gruppo di alunni adolescenti, quasi tutti afro e ispano-americani, i maschi bulli e le femmine smorfiose, i ragazzi sensibili e le ragazze tristi, delinea un frammento di vita contemporanea in cui la liquidità dei rapporti umani fa convergere in unico caleidoscopio felicità e dolore, ricordo e speranza, amore e morte, sguardo e ferita. Smartphone, messaggi istantanei, emotività a fior di pelle, aggressività verbale e talvolta anche fisica, desiderio di isolamento e ansia di appartenenza, fanno dell’autobus di Gondry un’isola nella corrente, un mondo ideale eppure effimero che scorre, procede, si ferma e riparte, e lascia ai suoi rapidi passeggeri il compito di decidere quando e dove scendere.
Perché la vita è la fuori, nelle case di mattoni rossi e nei quartieri sopra la metro che rendono New York un luogo da abitare e non solamente immaginare, la fuori il mondo fa paura, la storia di un ragazzo un po’ matto ucciso in una rissa è vera, nasce come spunto del film stesso, ma vale sempre la pena buttarsi e provare a cercare un posto del mondo.
E se ai ragazzi qualsiasi di Gondry, attori non professionisti e autentici studenti tamarri del Bronx, spetta questo compito, il suo film, e forse il cinema stesso, si assume la funziona pietosa di offrire loro un luogo dove esprimere pensieri e muovere corpi, prima che la strada li prenda e li lasci soli.