Amour è un film sull’amore, sull’amore assoluto, quindi la quintessenza della vita, anche se si parla di malattia e morte. Amour è un film su una coppia di anziani professori di musica in pensione, genitori di una figlia musicista, che ricevono, come unica visita da parte di un non familiare, un ex-allievo ora musicista acclamato: eppure è un film senza musica, tranne in un paio di momenti, tra cui un ricordo straziante che pare il paradiso perduto, e a tal punto desiderato, da sembrare realtà del presente. Amour è un film sulla contemporaneità, eppure non si vede nulla del mondo contemporaneo, ma per parlarne meglio. In absentia.
Questo film, e di conseguenza questa recensione non è per i giovani, o quantomeno coloro che sono dei fanatici della cultura giovanile, i cosiddetti fan. Il fan: paradigma dell’infantilismo odierno. Povero in indagine spirituale, privo di grandezza nelle aspirazioni. Perfetto per un’era impaludata nella mediocrità. Il fan di un cinema d’intrattenimento di registi come Refn o Fincher s’ingozza con un cinema fatto di (piccoli e miseri) concept provenienti dall’estetica delle pubblicità, devastante macchina degli effetti del tardo-capitalismo. E ovviamente evacua qualsiasi cosa che vagamente somigli all’angoscia, al contrario di molti tra gli appartenenti alle generazioni precedenti (dai cinquant’anni in su). Hanno orgasmi verso il gusto freddo e meccanico per l’uccisione e la violenza estetizzata di pseudo-registi citati, un dandismo da serial killer, ignorato dalle altre generazioni. Siamo dentro fino al collo al mondo descritto dalle classificazioni di quel grande del pensiero postmoderno che è lo statunitense Frederic Jameson. Sempre più colori scintillanti e saturi e overdose di effetti immersi in una dimensione levigata e priva di asperità che evacua l’angoscia, quindi anche la conoscenza. Poiché, ci ricorda sempre Jameson, era affrontare l’angoscia, fenomeno corrente, anzi tipico, nell’arte fino alla modernità per fornire conoscenza e quindi le chiavi per sperare, le chiavi per il futuro… Il risultato è che viviamo e vivremo in una società sempre più angosciosa, proprio perché non affronta il domani, preferendo sempre la vacuità dell’aneddotico e il divertimento effimero all’impegno realmente portatore di una visione sul mondo e sull’uomo.
Haneke è un dei pochi registi contemporanei che usa un’estetica fintamente disumana per far tremare gli schemi dell’oggi e portarci nel regno del turbamento. Dopo Il nastro bianco, il lungometraggio precedente del cineasta austriaco, il nastro nero: ai molti spazi aperti nel bianco del passato, succedono gli spazi chiusi di una casa in città, nella contemporaneità. Ma ritroviamo la stessa clausura, la claustrofobia. Il film debutta con l’unico esterno, che in realtà è un altro interno: un pubblico a teatro. O a un concerto, come capiremo (si torna alla musica, già strumento di riflessione per il regista, come ne La pianista del 2001). L’anziana coppia rientra a casa: entra direttamente nell’appartamento, tranquilla e rilassata. Nella notte, la donna nel buio si alza nel letto, lo sguardo perso nel vuoto. È un’assenza. È un’inquadratura presagio.
La mattina dopo, durante la colazione, Anne è improvvisamente ferma, immobile: alle domande di Georges non risponde, come pure ai suoi tentativi di scuoterla. Dopo l’immagine-frammento dell’inizio, l’assenza entra nel mondo concreto. Anne rinviene, ma i suoi ritorni saranno sempre meno rassicuranti: rientra dall’ospedale in carrozzella, perché l’operazione per risolvere il suo male non è andata proprio come sperato. Da quel momento è un lento aggrapparsi alla vita, come piccoli insetti di fronte a qualcosa che si appresta a schiacciarli. Anne si degraderà sempre più, fino a un livello esplicito di non vita, sempre più immobilizzata a letto, sprofondando via via nella demenza. È chiaro che Georges aggrappandosi a lei si aggrappa a sua volta alla vita. Come lei, anzi più di lei. Chi resta – chi resta nell’assenza – è sempre il più solo nel freddo buio della morte.
In realtà, Anne e Georges sono non vivi, dal momento in cui rientrano dal teatro/concerto: zombie, ma pieni di un’umanità ultima. Gli ultimi umani, perché fuori c’è stato il dopo bomba. Fuori i giovani, da quest’ultimo eremo di umanità. Sono intrusi, le poche eccezioni saranno gradualmente percepite come tali. La prima, la più gentile e la più gradita, è l’ex allievo dei due professori di musica e al cui concerto avevano assistito. Lui è squisito, d’altri tempi, suona per Anne, ormai sulla carrozzella ma ancora ben lucida. Il giovane musicista gentile è venuto a rendere l’ultimo omaggio: un ringraziamento, prima che il sipario cali sullo spettacolo della loro vita. Un gesto di riconoscenza. Ma la lucidità di Anne è di breve durata, dopo quell’incontro Anne starà sempre peggio. Quel raro momento di felicità, di armonia, è portatore di un’angoscia insopprimibile: un disperato bisogno di morte. Cercherà di uccidersi, segnando uno dei pochi momenti di presenza nell’assenza del fuori. Anne prova a buttarsi dalla finestra, non ci riesce; Georges la troverà a terra sotto a una finestra da cui si intravede la pioggia. Unico segno dell’esistenza del mondo esterno. Da allora la musica non ci sarà più, quantomeno nel tempo presente. La musica, l’emozionalità totalmente irrazionale ma profonda che suscita, l’aveva fin troppo turbata. La gioia è ormai esclusiva del mondo dei vivi. Ci sarà allora posto soltanto per un solo secondo momento di musica, quello citato all’inizio, un ricordo dolce quanto lancinante. Suonare è ancora un atto di vita, di chi spera nella vita, nella bellezza del mondo e delle cose, perfino nella malinconia del crepuscolo e della morte, e vuole celebrare tutto questo. Ma non è un atto per dei non vivi. Ma chi sono i vivi e i non vivi? Forse ci si potrebbe chiedere: chi sono gli altri?
Viene in mente il film di Alejandro Amenabar, piccolo ma fine film di genere, The Others (2001): un film di fantasmi e di case infestate. Nel finale si scopre che il quotidiano di Nicole Kidman, che ci sembrava così vero, è in realtà quello di entità non vive, imprigionate per sempre in una quotidianità perenne. Un mondo sotto-sopra rispetto al reale, che gli abitanti vivi non colgono, tranne per saltuari segnali che creano in loro angoscia. Forse per questo l’incontro tra i due universi (i vivi e i morti) non ci sarà mai. Il mondo sotto-sopra a quello “reale”, nascosto nei suoi interstizi, è l’appartamento in cui vivono ormai Anne e Georges. Lo splendido finale del film ne è la chiara conferma: l’esplicitazione dell’assenza definitiva (Anne e Georges escono dalla porta di casa). Così come l’incubo di Georges è chiaramente una metafora dello loro stato, un ulteriore presagio, che gioca con gli stilemi del cinema horror/fantastico. Più o meno alla Amenabar. O alla Jacques Tourneur, suo antenato nobile. Padre di quel cinema del fantastico che per far sorgere nello spettatore l’inquietudine, suggeriva più che mostrare. Effetti pochi o nulli. Nella sequenza appena citata Haneke filma anche qualcosa di prossimo ai miti dell’antichità sull’esplorazione delle tenebre. Uno dei sogni-presagio che hanno segni da interpretare al suo interno: Georges nell’incubo sente il campanello alla porta di casa. Apre la porta e non c’è nessuno. Chiama: nessuno risponde. Sulla porta dell’ascensore ci sono tavole a sbarrare tutto, come in una casa ormai abbandonata, infestata dai fantasmi. Georges, nell’oscurità, si avvicina ad una porta del corridoio ma non si apre. Appena si volta, un braccio compare da dietro l’angolo, afferrandolo per la testa. Nello spiraglio di una porta vicino, c’è invece un chiarore, una luce calda. Due direzioni? Una per l’Ade, una per il Paradiso? In fondo Georges non è altro che un Caronte che traghetta verso l’altra sponda la sua amata. In attesa di attraversarla anche lui.
Cosa c’entrano i giovani in questo contesto? Sono gli ignavi del (vuoto) mondo contiguo, che sanno sempre tutto e vogliono dare lezioni su tutto. È sicuramente il caso della figlia, interpretata da un’attrice del calibro di Isabelle Huppert: non capisce il lento allontanamento del padre che rifugge le proposte, i suggerimenti belli e pronti, le formulette – affetto filiare buono per quest’epoca – che tenta di propinargli. Lei ha sempre più difficoltà a vederlo, a comunicare con lui, tra i due non vi è reale densità in quello che si dicono. Il padre è ormai prossimo alla densità fondamentale: quella del momento ultimo. Lo scontro diventa ancora più manifesto nei confronti della giovane infermiera chiamata ad assistere Anne, ormai ridotta a livello vegetativo. Una piccola esperta, estremamente professionale, ma per nulla prossima all’umano. Ce ne sono a bizzeffe di giovani così: tra i medici, nella politica, nella polizia, nel giornalismo: la loro professionalità – tutta fatta di levigatezza e superficie – è direttamente proporzionale alla loro profonda grettezza umana. È una macchinetta sanitaria, una tecnocrate della salute, una nullità dell’umanità. Con un modo di fare umiliante tanto verso la persona curata, tanto verso l’uomo che si trova ad assistere allo scempio dell’insensibilità. Un mostro. Un vero mostro, ed è per questo che Georges la butta fuori di casa con violenza e umiliandola. Le getta addosso il denaro, lasciandogli anche il resto. Lo schiaffo che subisce, la fa piangere ma ne fa – finalmente – un essere umano. Del resto Anne, in una delle frasi chiave del film, non dice forse a George: “sei un mostro, ma sei così gentile”? Già, un mostro gentile. Il vero mostro non gentile è invece l’infermiera-macchinetta-esperta. Un figura che ci rimanda a un altro film presentato in Concorso a Cannes quest’anno, l’ottimo Al di là delle colline di Cristian Mungiu. L’infermiera del finale è fredda, meccanica, asettica: altrettanto mostruosa dell’indefessa credenza nel dogma religioso delle monache protagoniste del film, ma senza la loro dolcezza ed empatia umana.
Il “mostro così gentile”, ovvero Michael Haneke, ha chiamato per interpretare Georges e Anne, due ottuagenari del cinema: Jean Louis Trintignant e Emmanuele Riva, quasi sovrumani nella loro bravura, oltre per la loro professionalità e umanità. Riva che ha lavorato con registi come Resnais, Garrel, Bellocchio e Franju. Trintingnant, erano quattordici anni che non girava, non voleva più saperne. Un ottantenne, che zoppica dopo l’incidente di moto avuto quando aveva sessant’anni, e che ha recitato nel film, aggrappandosi alla vita. Una sofferenza che “schiaccia tutto”. Due volti che hanno segnato un immaginario cinematografico, e forse per questo sono così efficaci nell’avvicinamento alla morte, capace di sovrapporsi e prendere potenza dall’icona che furono un tempo.
Proprio per queste scelte estreme che Haneke è rimproverato di non essere umano, mentre il suo cinema è uno studio del comportamento umano, ma da entomologo dallo sguardo morale. E non si hanno convinzioni morali senza umanità. Quella di Haneke è una confessione pubblica senza precedenti nella storia del cinema, fatta a noi tutti. Una simile confessione è per definizione impudica, eppure i toni sono estremamente pudici. Sta a noi avere il coraggio di entrare e stare in questa catacomba, di esplorarla, di contemplarla. Di conoscerla. Nel finale spetta alla figlia: è seduta davanti alla biblioteca dove il padre tanto amava stare. Finale duplice: da un lato Isabelle Huppert rimane sola – resta nell’assenza – e nel vuoto, ma un vuoto così pregnante; dall’altro, anche lei è avviata, da quel momento, verso lo stesso destino, la vita non è più un orizzonte illimitato dalle mille strade possibili, ma un orizzonte ristretto con una sola strada possibile. Ora ascolta i suoi genitori in quel vuoto. Riflette e contempla. Ha acquisito una coscienza.
Cala il sipario. Tutto finisce. Titoli di coda senza un suono. Nel silenzio del nero. Il nastro nero.