C’è chi si è già affrettato a definirlo un festival senile e non soltanto a causa della Palma d’Oro assegnata a Amour di Michael Haneke ma anche di una selezione (almeno nella competizione più importante) che non ha saputo osare nomi nuovi, adagiandosi sul “parco autori” habitué del festival. Una forza che in certe annate si può anche trasformare in una debolezza. Quest’anno, infatti, il palmares esprime in pieno la mancanza di novità, facendo emergere qualità note non soltanto al pubblico cinefilo e agli addetti ai lavori, ma anche a quello generalista. Persino in un paese come l’Italia, che certamente in questo momento non gode di una florida distribuzione dei film internazionali, i vincitori erano già stati acquistati prima dell’inizio della manifestazione e nulla di nuovo varcherà il confine, se non i soliti americani, Haneke, Mungiu, Loach, Vinterberg e, evidentemente, Garrone.
Curioso come persino i singoli premi reiterino altre edizioni, consacrando l’austriaco Haneke con la Palma (a soli tre anni di distanza da Il nastro bianco, film di superiore intensità e portata), Garrone con il Gran Premio della Giuria (come avvenne per Gomorra), il rumeno Mungiu per la sceneggiatura e le straordinarie interpretazioni femminili (che già erano state segnalate in occasione della sua precedente Palma, cinque anni fa con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni). Insomma nulla di nuovo: il presidente Nanni Moretti, con le oculate scelte della sua giuria, conferma uno stato di fatto più che aprire nuovi orizzonti. Unica eccezione (che conferma la regola) è il Premio per la migliore regia al messicano Carlos Reygadas con Post Tenebras Lux, film difficilmente difendibile che dimostra, ancora una volta, la sorprendente visionarietà dell’autore (Japon, Battaglia nel cielo, Stellet licht), questa volta intrappolata in un ermetico silenzio. La storia di un giro di vite salvate e dannate nell’inconciliabile tensione tra chi vive in città e chi nella natura selvaggia è l’unica sorpresa degna di nota del palmares, ma sarebbe autolesionistico consigliare a qualcuno di distribuire il film nel proprio paese (lo farebbe la Sacher, in Italia? viene da domandarsi).
Come già scrivevano le testate francesi prima dell’inizio della manifestazione, sarebbe stato difficile ottenere gli stessi risultati dell’anno passato con la volata di The Artist dalla Croisette agli Oscar e con i successi internazionali (e non proprio prevedibili) di Drive e Take Shelter, con una Palma a un maestro come Terrence Malick e gli straordinari incassi casalinghi di due piccoli film francesi: Pater di Alain Cavalier e La guerre est déclarée di Valerie Donzelli.
Forse è proprio per questa mancanza di prospettive che sul 65esimo Festival di Cannes ha gravato un’aurea crepuscolare. Viene da pensarlo per Haneke e il suo Amour, film sul disfacimento fisico di due icone, Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, la cui vecchiaia è ancora più disperata perché conosciamo la forma eternata dei loro sguardi vibranti nel tempo in cui furono giovani. Contro il loro aspetto si leva la parola, unica forma di sopravvivenza in un mondo che poco a poco li taglia fuori e li abbandona di fronte al proprio dolore. Fuori campo della vita, la morte, è data come l’immagine sacra di un sarcofago profanato dalla decenza di una società che conosce i cimiteri ma non ancora il modo migliore di arrivarci. Quasi all’opposto si situa il film testamento di Alain Resnais Vous n’avez encore rien vu che raccoglie in una sala gli attori principali del regista, ormai novantenne, per far recitare loro il mito di Euridice e dell’eterno ritorno di Orfeo. Atto finale e gioco linguistico, il film si articola in una serie di figure e messe in scene del teatro al cinema in un’operazione funambolica che rischia di non andare al di là di un esercizio di stile, per riscattarsi nel finale in cui il cinema prosegue oltre le tristi sorti terrene.
Ben diverso è l’approccio del film più trascurato dalla premiazione, lo stravagante Holy Motors, ritorno al cinema di Leos Carax (a tredici anni di distanza da Pola X). La storia fantascientifica di Oscar, uomo condannato a rivestire molteplici panni identitari in una recita che sembra coinvolgere l’intero Pianeta, è una metafora piena di dolore e di vita che offre svariati piani di lettura (alcuni dei quali esposti nello speciale che gli dedichiamo su questo numero). La società descritta fa eco a quella rappresentata da un altro grande sconfitto della manifestazione, David Cronenberg, che con Cosmopolis trasforma le pagine di De Lillo in immagini asciutte, prevalentemente girate all’interno di una lussuosa limousine in cui sopravvive, prigioniero, lo spirito del Capitalismo. Anche Oscar, in Holy Motors si aggira in limousine da un appuntamento a un altro, da una trasformazione all’altra, e il suo “sacro motore” si rivela ben altro: la macchina da presa e la sua incontrovertibile trasformazione, da mezzo pesante a leggero ma pur sempre in cerca di “frammenti di bellezza”.
E se proprio si dovessero ricondurre i film a un unico tema, emerge in maniera preponderante la totale mancanza di una solida comunità, rotta storicamente fin dalla Seconda guerra mondiale, come mostra il didattico V Tumane di Sergei Loznitsa. Ma soprattutto Al di là delle colline di Mungiu, che si serve di un luogo chiuso e isolato – un monastero nella sperduta campagna rumena – per denunciare una società incapace di accogliere i giovani e la forza eversiva dell’amore. Le immagini fulgide e i piani sequenza sono il segno della radicale essenzialità di un giovane regista che fa del cinema un gesto politico ed è ancora capace di far discutere. La fine della fiducia e l’astrazione del desiderio, che si trasformano in paranoia e alienazione, sono la traccia per Reality di Matteo Garrone, ritratto devastante di un’Italia ossessionata dai complotti, e di Paradise: Love di Ulrich Seidl, lucida e amara (ma non priva di ironia) discesa nell’immaginario del turismo sessuale al femminile (primo capitolo di una trilogia, il cui secondo episodio sarà a Venezia). Confinati nelle loro case gli anziani assistono a un mondo che appartiene solo in apparenza ai giovani, stretti nelle maglie di un potere evanescente quanto capillare a cui non possono ribellarsi. Individui incapaci di agire, come dimostra la suadente figura della giovane squillo giapponese di Abbas Kiarostami (Like Someone in Love), sballottata tra passato e futuro di un Giappone che non ha ancora trovato una nuova identità.
Forse solo l’America crede nelle potenzialità di riscatto dei più giovani: come dimostrano Mud di Jeff Nichols e Moonrise Kingdom di Wes Anderson. Il primo è un racconto di formazione a metà strada tra Stand By Me e la narrativa di Joe Lansdale, sul delicato momento di passaggio che conduce dagli stupori dell’infanzia a una nuova e necessaria intraprendenza. Dopo le inquietudini sociali ed esistenziali di Take Shelter, Nichols conferma il proprio talento visivo ma manca di concisione e si perde nel finale, eccessivamente buonista. Anderson, relegato all’apertura, confeziona invece il suo miglior film: muovendosi sullo stesso territorio di Nichols, è capace di volgere verso la giovinezza, e il primo amore, uno sguardo già segnato dalla nostalgia ma ancora gioioso nel descrivere il breve momento della vita in cui i confini sono ancora vaghi e l’identità si forma nella diversione dal percorso stabilito.