La figura dello scrittore Mishima Yukio ha avuto un’incredibile risonanza nel cinema. Oltre ai numerosi film tratti dalle sue opere, a film da lui sceneggiati e a quello, The Rite of Love and Death/Patriotism (1966), da lui diretto, e a quelli che lo vedono interprete, al biopic americano di Paul Schrader, Mishima: a Life in Four Chapters (1985), ci sarebbe tutto un capitolo di opere indirettamente, e a volte in negativo, a lui in vario modo ispirate. Da Yakuza (1974) di Sidney Pollack a Merry Christmas Mr. Lawrence (Furyo, 1983) di Oshima Nagisa che già aveva modificato in corso d’opera il suo The Ceremony (1971), toccato dai fatti del 25 novembre del 1970: il tentato colpo di stato dello scrittore con un nucleo di fedeli della sua milizia privata, la Tate no Kai, e il suo successivo suicidio.
Anche Wakamatsu Kōji, su impulso immediato del grande impatto suscitato da quella vicenda, aveva affrontato la figura dello scrittore nel 1970 con il film The Woman Who Wanted to Die. Con lo spirito anarcoide che caratterizzava quella sua fase artistica, Wakamatsu vedeva la figura di Mishima, insieme alla tradizionale saga dei 47 ronin, come portatrice di valori tradizionali di morte, il seppuku, il suicidio rituale del samurai, e lo shinju, il doppio suicidio di amanti, che inducono nei personaggi del film una tensione all’autodistruzione in un connubio di eros e tanathos. Dopo oltre quarant’anni Wakamatsu torna su Mishima.
Oggi la figura dello scrittore rientra in un percorso di rilettura storica che il regista sta facendo, con il dovuto distacco, di quegli anni, come già il precedente United Red Army (2007), sull’organizzazione terrorista giapponese di cui all’epoca era un simpatizzante. 11.25: The Day Mishima Chose His Own Fate può rientrare in un ideale dittico, come quello di Eastwood su Iwo Jima, con United Red Army. Gli eventi di questo film sono messi in risonanza con quelli raccontati nell’altro. L’intento di Wakamatsu è di tornare su quell’epoca in fermento focalizzandosi su due diversi punti di vista. E la figura di Mishima è trattata con lo stesso rispetto dei militanti della United Red Army, accomunati dalla lotta per cambiare il proprio paese, in pena deriva modernista, secondo quelli che erano i propri ideali. E Wakamatsu li può guardare ora con sguardo disilluso: «il tempo ci ha permesso di capire che nulla è cambiato nella nostra società».
Il personaggio di Mishima è quindi sostanzialmente visto nel suo rilievo storico, Wakamatsu non prende praticamente in considerazione la sua figura letteraria, non ci sono letture, citazioni enfatiche o rappresentazioni da suoi romanzi, come invece è l’approccio di Paul Schrader. Il film di Wakamatsu inizia con l’assassinio del leader socialista Asanuma Inejirō passa attraverso una serie di eventi storici di quella turbolenta stagione, manifestazioni e scontri di piazza, le azioni della United Red Army. In questo contesto di tensione si inserisce quindi il blitz di Mishima. Wakamatsu lo racconta con precisione e minuzia di dettagli seguendo le basilari regole della suspence. E la narrazione dell’episodio combacia con la ricostruzione fatta da Schrader che però chiudeva con la scena del seppuku di Mishima. Wakamatsu si spinge più oltre, non ha bisogno di chiudere con quell’enfasi hollywoodiana e con una roboante musica come quella di Philip Glass.
Prosegue con l’altro seppuku, quello del fedele Morita Masakatsu e aggiunge un epilogo finale, presumibilmente inventato: l’incontro cinque anni dopo tra la vedova dello scrittore e uno dei miliziani superstiti uscito di prigione, Koga Hiroyasu. Un momento toccante che avviene in un baretto esattamente uguale a quelli del film precedente del regista, Cycling Chronicles: Landscapes the Boy Saw (2004). Wakamatsu si mantiene su un piano sobrio, intercalando, come ha sempre fatto, immagini da giornali, filmati o foto di repertorio, che gli permettono di evitare le scene di massa, come per i militari radunati da Mishima. Fa uso abbondante poi di macchina a mano e di una fotografia decolorata.
Wakamatsu riprende, in questo film però più moderatamente che in altri, la Teoria del paesaggio, il manifesto adottato a fine anni Sessanta insieme a Oshima Nagisa, Adachi Masao e altri, che si basa sul concetto chiave di fūkei, traducibile come paesaggio ma anche come spettacolo naturale, che prende il posto del principio di situazione. Qui, inserisce immagini per lui anomale di petali di ciliegio che cadono, dopo la scena del seppuku di Mishima, visualizzazione del detto dei samurai «Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero», e di foglie d’acero rosse. E l’imponente Monte Fuji, altra icona simbolo del Giappone, si staglia sullo sfondo della camminata della vedova dello scrittore, mentre si reca all’incontro finale.
Fisicamente Mishima è reso in maniera infedele. L’attore che lo impersona è giovane, dieci anni meno di quelli che aveva lo scrittore quando è morto, e soprattutto la sua corporatura gracile, come si vede nelle scene in sauna, mentre è noto che in quel periodo Mishima aveva una stazza erculea. Si tratta evidentemente, in una ricostruzione così accurata, di una inesattezza voluta. Wakamatsu vuole così sottolineare la reale fragilità interiore dello scrittore, come esposta in Confessioni di una maschera, sottolineando così la sua umanità, simile a quella dei giovani membri della milizia. E Wakamatsu può dunque concludere con un altro omaggio, questa volta alla statura del Mishima letterato, nei titoli di coda che elencano, prima di ogni altro credito, le sue opere.