Se qualcuno avesse mai avuto dubbi sull’attualità di una serie come Mad Men, potrebbe ricredersi di fronte all’assoluta coincidenza di temi con No e al suo valore esplicitamente politico e storico. Chi poi, su un altro versante, avesse mai avuto dubbi sul cinema di Pablo Larraín, trovando (non è il caso di scrive) troppo programmatico un discorso filmico impegnato a saldare antropologia e storia, destini individuali e destini collettivi, corpi privati e icone pubbliche, con No si troverebbe di fronte a un film sorprendente, in cui il rigore dell’inquadratura, l’accumulo di elementi che soffocano la memoria, si libera in una ricerca figurativa necessaria perché dritta al cuore della rappresentazione della modernità e del cambiamento.
Con No Larraín si libera del fantasma di Pinochet e del suo attore feticcio, quel Alfredo Castro che in Tony Manero e Post mortem era un corpo piccolo e violento come il tallone della dittatura, e grazie anche alla figura nuova (nel suo cinema) di García Bernal, racconta il momento della rinascita del suo Paese: il referendum popolare che nel 1988 portò alla fine della dittatura militare e venne vinto dal fronte del No grazie a una campagna pubblicitaria fondata su criteri commerciali e ottimistici (ed è qui il legame con Mad Men: la figura del pubblicitario visionario e moderno, le riunioni per la strategia comunicativa, le riflessioni sulle reazioni al prodotto da parte del pubblico. Solo che non si parla di Jaguar, ma di politica, e non si va incontro al fallimento economico, ma all’intimidazione, all’arresto, alle cariche della polizia).
Per farlo, per raccontare l’ingresso del Cile nel XX secolo dei sogni e dei bisogni televisivi, Larraín si cala nel passato recente con la forza dell’immedesimazione cinematografica, che intesa letteralmente significa ricostruire in digitale la grana giallognola, pastellosa e slabbrata delle immagini televisive di allora, dei VHS, dei telegiornali, degli spettacoli televisivi, delle pubblicità. È uno shock visivo, un lavoro perfetto e per una volta non malinconico sull’estetica vintage; tutto ciò, insomma, che stavamo aspettando riguardo la famigerata «invenzione della nostalgia» che funesta questi anni: Larraín ricostruisce, ricrea, ricalca, fa riferimento a un universo iconografico riconoscibile, di immediata emotività per un pubblico sia vecchio sia giovane, e in questo modo scava nel qui e ora della storia e soprattutto nel momento fondante della modernità.
Se infatti Mad Men individua nell’principio degli anni ’60 la fase in cui il capitalismo, da pratica economica, diventa ideologia estetica grazie alla pubblicità, Larraín applica lo stesso ragionamento alla storia del Cile. La narrazione fasulla del commercio, il vuoto della pubblicità moderna, lo scontro politico che da guerra criminale diventa confronto di apparenze, «copia della copia della copia», come dice al protagonista, il pubblicitario René che gestisce la comunicazione della campagna del NO, la moglie militante semiclandestina, per Larraín riscattano la storia, la liberano dalla dittatura, e al tempo stesso aprono al vuoto della contemporaneità.
L’idea vincente del fronte referendario – nel film concentrata nella sola figura di René, nella realtà creata da un gioco di squadra (e su YouTube si trovano gli autentici spot di allora utilizzati da Larraín) – fu infatti quella di considerare la politica come un prodotto, vendendo sogni e speranze alla stregua di bibite o pannolini. Esattamente come faceva la parte del Si alla dittatura (anche qui concentrata in una sola figura, significativamente interpretata da Castro), in un confronto tra ottimismi e speranze che aveva come risultate un vuoto semantico che la pubblicità stessa colmava, dando al fronte del nuovo, dell’arcobaleno, del colore, la chance di una vittoria perché simbolo del presente, di una liberazione promessa e dunque credibile.
Ai tempi fu una vera vittoria, un salto in avanti che servì a liberare il paese da Pinochet almeno a livello politico (per la definitiva liberazione, invece, ci sarà ancora da aspettare, visti anche i recentissimi scontri a seguito della proiezione di un film biografico sul dittatore). Ciò che il voto del 1988 ha lasciato non è solo speranza o cambiamento, ma anche una realtà in cui l’estetica pubblicitaria ha invaso ogni forma di pensiero e rappresentazione. E quelle immagini così belle eppure fasulle, così meravigliosamente nostalgiche e familiari, non sono un ricordo ma una prigione estetica in cui Larraín ha scelto deliberatamente di nascondersi, in attesa di una liberazione che deve ancora venire.