Hushpuppy è una bambina di colore di sei anni, sguardo incendiario e pettinatura afro alla Angela Davis. Hushpuppy non ha più la madre, di cui conserva gelosamente ogni ricordo nei resti di un’automobile convertita a baracca galleggiante in cui vive con il padre, assente e alcolizzato. Hushpuppy è costretta a crescere da sola, mescolando l’istinto di sopravvivenza alle apocalittiche fantasie infantili che popolano i suoi giorni. Hushpuppy ha però l’incrollabile fiducia dei puri ed è convinta di vivere nel posto più bello del mondo, il “Bathtub”, una vasca d’acqua e verde che è ciò che rimane del bayou di New Orleans, affogato dalla vicinanza di una diga.
Beasts of the Southern Wild è un resoconto esplosivo di un mondo sommerso e della fatica quotidiana di chi combatte in superficie, specchiandosi in una distesa di acqua senza fine che minaccia e avvolge, osservata dagli occhi febbrili di una ragazzina che non conosce il concetto di resa, abituata a combattere con la forza dei sogni e delle azioni, con il dissennato coraggio di chi è nato per sopravvivere. Hushpuppy corre, nuota, scappa, sogna, immagina, insegue, respira, osserva, ascolta con sguardo stupefatto il battito cardiaco di ogni essere vivente. È posseduta cineticamente e riflette con le sue azioni – a volte incoscienti, a volte insensate, spesso decisive – la voglia di vivere di un popolo piegato, pronto ad ubriacarsi di vita per combattere un quotidiano di privazioni e primitive lotte per il minimo bene comune.
Beasts of the Southern Wild racconta Katrina, ovviamente, ma fa i conti con un qualsiasi trauma da dopobomba. È il più vitale trattato del cinema americano sulla resurrezione e la speranza, privo di quella roboante retorica patriottarda che ha ingolfato tante opere post 9/11. E il suo schierarsi con umana generosità dalla parte degli umili, sposandone ciecamente il punto di vista (perché altri punti di vista moralmente non esistono) è immune da qualsiasi pietismo peloso, da quella visione di comodo, edulcorata e mistificatoria, che troppo spesso racconta il prossimo con un paternalismo insultante e ipocrita. La capacità affabulatoria della scrittura (e una voce off per una volta funzionale e necessaria, mai ingombrante, mai didascalica) segue il vorticoso ritmo delle immagini, capaci di miscelare primitive pulsioni fantasy, descrizioni naturalistiche ipnotiche, lampi da romanzo lisergico di formazione, suggestioni da fiaba pop. Il paesaggio del bayou è al centro di un lirico atto d’amore, terra sommersa a cui regalare devozione, perché dalla salvezza della terra, minacciata allo stesso tempo da una modernità rapace e dalla natura impietosa, nasce la liberazione della collettività, cardine imprescindibile della crescita dei singoli.
Nel panorama del cinema indipendente americano, tendente a una preoccupante omologazione di scrittura e messa in scena, Beasts of the Southern Wild è un atto di fede nei confronti della libertà creativa: potente e anarchico, libero e strabordante, consapevole e folle, sembra riscoprire il gusto della narrazione senza traccia di intellettualismo ma anzi traducendola visceralmente in esperienza visiva. Hushpuppy è una regina sghemba, una predestinata che ha un legame animistico e animale con la sua gente e con la sua patria: da tempo non si riusciva a creare una metafora così potente del senso americano di collettività, ormai troppo spesso ridotto a guerre di bande tra gruppuscoli protoreligiosi e tea parties da salotto. Hushpuppy invece rappresenta il domani e la comunità, parla e sente come un cittadino venuto dal passato a cui è affidato il nostro futuro, perché forse solo dal sentimento ineluttabile di lotta di una guerriera bambina sovrastata da un cespuglio di capelli potremo imparare a sopravvivere, a sperare, a immaginare una nuova vita insieme.