Esordio dietro la macchina da presa in un lungometraggio per Mathieu Demy, che confeziona un’opera intensa sui temi dell’elaborazione del lutto, della memoria, dei ricordi famigliari e d’infanzia, dei rapporti con i genitori e dei fantasmi del passato. Tematiche sviluppate in forma di road movie, nel corso di un viaggio che è un percorso personale, ma anche, inevitabilmente, un percorso cinematografico attraverso il suo “cinema du papa”. Sono due infatti i sottotesti di Americano: Documenteur (1981), film della madre Agnès Varda, in cui Mathieu bambino aveva recitato, e Lola (1961), primo lungometraggio del padre Jacques Demy.
Mathieu Demy, anche interprete, è Martin, un giovane parigino. Viene raggiunto dalla notizia della morte della madre e si reca a Los Angeles, dove lei abitava, per sbrigare le formalità funerarie e testamentarie. Si reca poi a Tijuana alla ricerca di Lola, sua compagna d’infanzia quando viveva con la madre a Los Angeles, con la quale è rimasta in contatto. La ritrova in un night-club della città messicana, l’Americano, ma lei si rifiuta di riconoscere il proprio passato. L’autobiografia del regista si palesa così come il progetto estetico da cui partire, senza comunque ridursi solo a quello, ma stabilendo un legame e un continuo gioco di rimandi tra cinema e vita. La storia familiare di Mathieu e la vicenda sentimentale dei due illustri genitori, con lunghe fasi di separazione, è ripercorsa spesso a ruoli invertiti, attribuendo alla madre le azioni del padre, e viceversa.
Il primo viaggio è quindi verso una “plage d’Agnes”, quella Venice Beach che Mathieu Demy riprende con sguardo contemplativo, dove la regista aveva soggiornato più volte, la seconda delle quali in compagnia proprio del figlioletto, con cui aveva realizzato il film Documenteur. Un’opera formalmente di finzione ma, a sua volta, dal forte sapore autobiografico, dove il personaggio interpretato dal piccolo Mathieu si chiamava proprio Martin. E in cui riecheggia la frase centrale, pronunciata e registrata su nastro dalla protagonista, «È l’arte a imitare la vita o è la vita a imitare l’arte?», un interrogativo che suona come un manifesto. Demy jr. inserisce spezzoni di quell’opera e riprende gli stessi luoghi, oggi, mettendoli in risonanza con le scene del film. Quella stessa spiaggia, il molo e le casette squadrate di quel quartiere alternativo di L.A. abitate da artisti e hippie. E l’inserimento di quegli stralci si trasforma in un found footage in cui Mathieu gioca il ruolo da Antoine Doinel, in un rapporto di equivalenza tra cinema e vita. Ed è il Doinel di L’amour en fuite, quello definitivo, postumo, che si pone in relazione con il se stesso bambino de I 400 colpi. Non a caso il progetto iniziale alla base di Americano era un sequel di Documenteur.
Il secondo viaggio è quello verso il padre e il suo cinema. La figura di Lola non è una semplice citazione, ma è l’attualizzazione del personaggio interpretato da Anouk Aimée nell’omonimo film. Una donna di vita, come recitava il titolo dell’edizione italiana, che si muove in quel golgota che è rappresentato dalla città messicana di Tijuana, un sorta di girone infernale in stile Dal tramonto all’alba. È il corrispettivo della Nantes di Lola, un porto di mare crocevia di persone, nonché città d’origine di Jacques Demy, affettuosamente chiamato dalla Varda “Jacquot de Nantes”. Ed è proprio in questo contesto che Mathieu/Martin trova un punto d’approdo al suo viaggio interiore, un appagamento alla sua ricerca esistenziale.
Evitando accuratamente qualsiasi “effetto The Dreamers“, qualsiasi ricaduta nel giochino cinefilo delle citazioni riconoscibile solo da pochi eletti, Mathieu Demy realizza un cinema del vissuto e della memoria, che per lui è giocoforza memoria di cinema. E affronta così tematiche universali.
Americano, regia di Mathieu Demy, Francia, 2011, 90′.