L’apertura del decennio è drammatica: il 2001, con la rapida successione delle tragedie del G8 genovese e dell’11 settembre, scuote in profondità il sistema della comunicazione. Ma se l’attentato alle Torri gemelle in diretta tv viene immediatamente ricondotto alla sfera dell’esperienza mediata, oggetto di analisi mediologiche più che motore di un’effettiva presa di coscienza, lo smascheramento del volto autoritario delle istituzioni ad opera di una anonima moltitudine di mediattivisti è momento fondativo di un movimento di nuovi documentaristi che, sia pure con molti limiti e alcune ambiguità, non tarderà a esprimere la sua voce. A confronto con le omissioni delle reti televisive (clamorosa quella della Rai che censura addirittura Bella ciao di Marco Giusti, Roberto Torelli e Carlo Freccero, 2001, che pure ha prodotto), il popolo delle videocamerine insegue tutte le storie che gli capitano di fronte, con una molteplicità di punti di vista che è di per sé alternativa. Come scrive Marco Bertozzi, “le microstorie possono finalmente circolare, il Grande Fratello incrinarsi di fronte alla moltiplicazione degli sguardi, la storia divenire un momento pubblico” (1). ll documentario ottiene su un piano politico-civile la considerazione che, almeno in Italia, gli era sempre mancata su quello cinematografico. Il brusco risveglio da una situazione dove sembrava che si potesse attingere alla verità solo sottoponendo il falso a un processo quintessenziale si traduce in una domanda documentaria forte che, seppure parzialmente disattesa, ha prodotto e ancora produce degli effetti.

Anche per questo, più degli esiti compiuti (l’unico film di valore resta Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini, 2002, anche se occorre segnalare almeno Le strade di Genova, 2002, umile e utilissima ricostruzione a opera di Davide Ferrario, Ilaria Fraioli, Giorgio Grosso e Jimmy Renzi) è importante la ricaduta del movimento genovese sulle prassi documentarie e sulle aspettative spettatoriali diffuse nel paese. L’idea che ci sia una realtà in movimento da raccontare si traduce in un diffuso attivismo, vitale anche se spesso scomposto. Centinaia di giovani scoprono la vocazione documentaristica e scendono nelle strade alla ricerca di una storia autentica e possibilmente appassionante. I risultati, almeno in prima battuta, non sono buoni: privo di modelli solidi e di cultura cinematografica specifica (i riferimenti condivisi sono giornalistici: Report, il settimanale Internazionale, oltre al magma del web), il “movimento” subisce la dittatura del referente e sforna lavori che anche quando escono dall’ambito militante e trattano di nuovi migranti o di vecchi operai risultano regolarmente al traino dell’agenda politico-giornalistica del paese, oltre che generalmente carenti di qualità cinematografiche.

Ma l’importante è che alcune fondamentali domande inizino a circolare: come porsi di fronte alla realtà? Come coglierla nel suo farsi? Come raccontare il cambiamento? Partecipare o testimoniare? Si tratta evidentemente di questioni a suo tempo affrontate dai teorici del cinema diretto ma che nel contesto italiano, carente di riferimenti culturali e penalizzato da sponde istituzionali – università, editoria, critica – deboli e disorganizzate, avevano scarso corso. Negli anni successivi, quelli presi in considerazione da questo volume, all’interno del grande movimento di aggiornamento e divulgazione che si è sviluppato un ruolo di primaria importanza ha proprio la riscoperta delle forme e delle riflessioni sul cinema diretto. Ignorato all’epoca del suo fulgore storico e snobbato poi a favore di forme più “moderne” e ibride (di volta in volta cinema militante, docufiction, videoteppismo, nonfiction, infine documentario di creazione), il diretto recupera posizioni soprattutto grazie alla mediazione di documentaristi didatti come Leonardo Di Costanzo, Daniele Incalcaterra e Alessandro Rossetto, che introducono anche da noi i modelli e le pratiche della scuola documentaristica francese la quale, neppure negli anni del documentario di creazione trionfante, ha mai reciso i legami con il diretto. (2)

A partire da tali sintetiche premesse, questo testo traccerà alcune delle linee di sviluppo – istituzionali, organizzative, tecnologiche e di riflesso estetiche – che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, cercando di individuare le tendenze di maggior respiro, anche in relazione al quadro internazionale, e infine ragionando su alcuni dei lavori più significativi degli ultimi anni.

Il mercato, o quello che ne resta

Il decennio 2000 segna il ritiro quasi generalizzato delle televisioni dalla produzione documentaria. Nel 2002 Murdoch compra Tele+ e interrompe immediatamente la politica di preacquisti che la rete aveva perseguito con coerenza dal 1997. Al documentario italiano viene a mancare quella sponda “industriale”, caratterizzata dall’indispensabile continuità e da un progetto editoriale preciso (in sintesi, l’importazione del documentario di creazione alla francese, sul modello Arte), che gli aveva permesso di fare un piccolo salto in avanti e di conquistare, anche tramite coproduzioni e accordi, una timida visibilità internazionale (3). Da una parte autori importanti come Gianfranco Pannone, autore di Latina/Littoria (2001), Alessandro Rossetto, Chiusura (2001) e Leonardo Di Costanzo, Prove di Stato (1999), si trovano improvvisamente privati della sponda nazionale, indispensabile per costruire coproduzioni internazionali di un certo livello, dall’altra si interrompe quella politica di promozione del nuovo che negli anni precedenti aveva portato ad esordire filmmaker come Alina Marazzi, Stefano Savona, Paolo Pisanelli e i Fluid Video Crew.

Gli anni successivi sono segnati da incertezze e contraddizioni, dove la costante è il relativo disinteresse della Rai, il cui impegno nel documentario si limita oggi alla trasmissione Doc3 (ventotto documentari “di interesse sociale” mandati in onda nel biennio 2010/2011, pochi dei quali sostenuti anche produttivamente) e l’unica vera novità è l’impegno delle istituzioni pubbliche locali e centrali nel documentario.

Capofila dei fondi locali istituiti negli ultimi anni (4), quello che ha il progetto più organico ed esteso – per quanto legato al territorio di riferimento (5) – è il Piemonte Doc Film Fund istituito nel 2007 per sviluppare e razionalizzare gli interventi che la Regione Piemonte e la Film Commission svolgevano singolarmente da alcuni anni. Con il finanziamento di 128 film per un ammontare oscillante da 5.000 a 43.000 euro nel triennio 2007-2009 (6) e il completamento di 56 film (mentre ce ne sono altri 53 in progress) nel biennio successivo, il fondo  è l’articolazione documentaristica di quel “sistema Torino” che appare tuttora come l’unico polo produttivo moderno ed europeo realizzato negli ultimi anni.

Il governo centrale risponde alle richieste dei documentaristi rappresentati dall’Associazione doc/it e con la nuova Legge Cinema (D. Lgs 22 gennaio 2004 n. 28 e successive modif.) inserisce i documentari nel novero dei film finanziabili. Dal 2005 in poi il Mibac sostiene una quarantina di lavori all’interno delle categorie dei Cortometraggi (40.000 euro ciascuno) e dei Lungometraggi (dai 200.000 euro di Fughe e approdi di Giovanna Taviani ai 640.000 euro di Civico zero di Citto Maselli). Importante dal punto di vista del principio – i documentari sono a tutti gli effetti dei film e come tali sostenuti – il finanziamento ministeriale ha un volume complessivo insufficiente a garantire una continuità produttiva all’industria del documentario ma non si può negare che senza di esso alcuni film importanti come La strada di Levi di Davide Ferrario (2006), Face Addict del ticinese Edo Bertoglio (2005), Il colore del vento di Bruno Bigoni (2011) e Il sol dell’avvenire di Gianfranco Pannone (2008) non avrebbero altrimenti visto la luce, mentre è evidentemente complementare ad altre più sostanziose provviste il contributo consegnato a Odessa di Leonardo Di Costanzo e Bruno Oliviero (2006), Giallo a Milano di Sergio Basso (2009), Per questi stretti morire di Sandri-Gaudino (2010), Gaza Hospital di Marco Pasquini (2009). L’intervento ministeriale, che prevede espressamente che una parte del finanziamento sia destinato alla distribuzione, il timido impegno dei documentari della divisione cinematografica della Rai (tra i film sostenuti, Odessa, I promessi sposi, Grandi speranze e Il castello di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, nessuno dei quali però distribuito regolarmente in sala) e il successo di documentari come Bowling for Columbine (2002) e Fahrenheit 9/11 (2004) di Michael Moore e Essere e avere di Nicolas Philibert (2002) hanno alimentato per alcuni anni l’illusione, corteggiata per un po’ addirittura dall’Associazione doc/it, che la sala cinematografica potesse costituire un’alternativa economica alla sempre più distratta televisione. Gli incassi raccolti dai tentativi più convinti (Biutiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero e Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, distribuiti rispettivamente da Lumière e Mikado nello stesso 7 marzo 2007, La strada di Levi di Davide Ferrario, Un silenzio particolare di Stefano Rulli, 2004) hanno però scoraggiato anche i più fiduciosi, tanto più che negli ultimi anni la riconversione digitale delle sale ha innescato un processo di ristrutturazione e di ulteriore concentrazione dell’esercizio destinato a ridurre gli spazi disponibili per i film indipendenti.

Supplenze e omissioni

A fronte del fallimento del mercato (cinematografico e televisivo) e delle incomplete contromisure istituzionali, accade però che il movimento documentaristico italiano non abbia smesso di svilupparsi e di esprimere individualità di rilievo tra gli autori e i curatori (7), di raccogliere prestigiosi premi internazionali ai festival (8) e di essere oggetto di interesse delle riviste internazionali (9).
La contraddizione, evidente e non si sa fino a quando sostenibile, ha il suo fondamento nello sviluppo di una rete informale di festival, scuole, associazioni, fondi locali, premi, editoria specializzata e siti web che, operando al di fuori delle compatibilità del mercato, hanno svolto un’opera di supplenza e garantito la tenuta del sistema. In particolare sono i festival che mantengono il collegamento tra i registi e un pubblico costantemente in crescita e assolvono quell’importante funzione di indirizzo che normalmente spetterebbe alla critica. L’aggiornamento e l’apertura internazionale di manifestazioni storiche come il Festival dei Popoli di Firenze e Filmmaker, la conversione al documentario di una manifestazione radicata come Bellaria Anteprima, la troppo breve vita di Infinity ad Alba, lo spazio sempre più ampio riservato al documentario dai festival generalisti hanno contribuito a diffondere e a sprovincializzare la cultura documentaristica diffusa tra gli operatori e il pubblico, e le retrospettive dedicate a Nicolas Philibert ad Alba, a Chris Petit e ai nuovi filippini a Pesaro, a Johan van der Keuken, Frederick Wiseman, Errol Morris a Filmmaker, a D.A. Pennebaker e Peter Whitehead a Bellaria hanno seminato vocazioni a vedere e a filmare di cui si è giovato l’intero movimento.

Più articolato il ragionamento sull’editoria. Insieme alle monografie realizzate in corrispondenza delle retrospettive festivaliere, il decennio ha segnato un certo ritorno d’interesse per il documentario degli editori specializzati, che hanno tradotto testi fondamentali come quelli di Bill Nichols e Guy Gauthier (10), hanno dato alle stampe l’indispensabile Storia del documentario italiano di Marco Bertozzi senza scordare la voce “Documentario” curata da Adriano Aprà per l’Enciclopedia Treccani.

Sono però altri i testi cardine: il primo è L’idea documentaria curato dallo stesso Bertozzi con la collaborazione di Gianfranco Pannone (11), collezione ricchissima e un po’ magmatica di testimonianze, ragionamenti e ricognizioni storico-teoriche che, uscita nel 2003, si trasforma rapidamente in un riferimento capillarmente diffuso in tutta la comunità dei documentaristi. Fondamentale strumento di aggiornamento al momento della sua uscita, a distanza di quasi dieci anni il volume appare come una sorta di autocoscienza collettiva di un movimento che prendeva per la prima volta coerentemente la parola. Interessante tanto per le domande che solleva quanto per le risposte che cerca, sintomatica espressione di grandi individualità e di alcuni limiti teorici e culturali, il volume è pronto per essere storicizzato e messo a confronto con le corrispondenti realizzazioni del periodo.

Del tutto proiettato in avanti è l’altro libro fondamentale del decennio, Vedere e potere di Jean-Louis Comolli, impegnativo nei riferimenti (molti dei quali sconosciuti in Italia) ed espressione di una riflessione teorica ambiziosa che affronta tutto il cinema alla luce della pratica documentaria. La teoria di Comolli – che è studioso e cineasta – si radica nella minuta pratica filmica e da essa è nutrita in un cortocircuito fecondo che offre risposte nello stesso momento in cui rilancia le domande. Il suo ragionamento sull’autorappresentazione della realtà davanti alla macchina da presa, figlio delle riflessioni storiche del cinema diretto, è posto con una tale efficacia, unitaria nel fondamento dottrinale e allo stesso tempo plastica ed adattabile alle diverse contingenze pratiche della messinscena, da offrire strumenti solidi sia a chi viene dallo studio del cinema e dalla cinefilia che ai cultori della pratica. Attraverso Comolli, che tenne anche un interessante seminario a Bellaria nel 2007, si riduce almeno in parte il gap culturale che separa l’Italia dagli altri paesi e comincia a diffondersi l’idea che il documentario possa essere oggetto di analisi filmiche raffinate segnando la via di un possibile incontro con la critica, finora ampiamente mancato.

Vedere sempre di più: l’alta definizione di massa

Relativamente indipendente dal mercato del documentario (ma piena espressione del mercato dell’elettronica di consumo), la variabile tecnologica ha un rilievo notevole ma sempre mediato sulle pratiche e ancor più sulle estetiche del documentario. Il vincolo di budget che affligge praticamente tutte le produzioni limita l’adozione di strumentazioni troppo costose e la necessità di leggerezza e praticità d’uso indirizza i realizzatori verso macchine da presa piccole e portatili. D’altra parte le comunicazioni via internet tagliano drasticamente i tempi di diffusione delle novità che ultimamente incalzano comunità virtuali di utenti sempre più informati e tecnicamente agguerriti. Gli anni che vanno dal 2001 al 2010 segnano l’allargamento dell’uso del digitale e soprattutto la definitiva affermazione dell’alta definizione a basso costo. Nel 2003 viene raggiunto un accordo sul formato HDV che consente la realizzazione di camere HD da 2000 euro, l’anno successivo esce il sistema di registrazione P2, a tutt’oggi il più affidabile e professionale, rapidamente affermatosi come standard di riferimento nel documentario, e nel 2006 viene lanciato il codec AVCHD, più efficiente nella compressione, adatto ai supporti a scheda e ben supportato dai nuovi e potenti processori dei computer da montaggio. Infine, tra il 2008 e il 2009, l’uscita sul mercato di due fotocamere Canon di prezzo contenuto e dalle spiccate qualità video (HD con codec H264, ma soprattutto ottiche intercambiabili e un sensore di ripresa di dimensioni pari a quelle del fotogramma 35mm che consente sfuocati e profondità di campo dal sapore marcatamente cinematografico) cambia le prospettive tecnico-realizzative di molti filmmaker indipendenti e con loro dei documentaristi meno conservatori. Da Monte Hellman (Road to Nowhere, 2010, in concorso a Venezia) a Stefano Savona (Tahrir Liberation Square, 2011, proiettato in uno spettacolare 2K al festival di Locarno) l’uso di macchine fotografiche usate come videocamere si diffonde rapidamente e altrettanto rapidamente, suggerite da innumerevoli clip disseminate su YouTube da tecnici puntigliosi ed entusiasti evangelisti del nuovo verbo, si affermano consuetudini di ripresa e soluzioni tecniche a misura delle piccole Canon. Oggi la focheggiatura selettiva è diventata un must di qualsiasi saggio di scuola e la straordinaria pulizia delle ombre in condizioni di scarsa luminosità spinge i filmmaker a orientare la macchina da presa verso soggetti fino a poco tempo prima letteralmente invisibili. Se la dialettica tra qualità del mezzo e progetto creativo del regista resta tutto sommato all’interno del fisiologico processo di aggiustamento reciproco tra tecnica ed espressione che il cinema conosce fin dalle origini, a colpire sono la velocità del fenomeno e le dimensioni che esso ha raggiunto. Oggi che l’alzata d’ingegno di un innovatore si può trasformare in consuetudine in un giro di web, è sempre più vero che la quantità fa la qualità.

Ma l’aspetto ancora più interessante del passaggio lo si coglie nell’interazione di queste tecnologia di ripresa con le proiezioni digitali in 2K diffuse ormai nelle principali sale cinematografiche del Paese – dove però i documentari non vengono proiettati quasi mai – e nei festival principali, specializzati o generalisti, dove invece i documentari si sono ritagliati da tempo uno spazio cospicuo. I proiettori ad alta definizione esaltano il “microcontrasto” delle immagini digitali che, al di là dei valori effettivi di definizione, inferiori anche nei casi migliori a quelli della pellicola 35mm, appaiono più incise e ferme, quasi scolpite sullo schermo. L’effetto è una sorta di potenziamento della visione, di un iperrealismo che evidenzia i dettagli e svela le imperfezioni (della pelle e del make-up: si pensi soltanto a J. Edgar di Eastwood). Che da una parte aumenta il numero di informazioni potenzialmente disponibili e dall’altra introduce una certa ineliminabile quota di artificio nella rappresentazione. La progettazione dei sensori e del software di controllo di queste camere sembra ispirata a modelli altri rispetto a quelli che hanno sempre governato la riproduzione della pellicola. Se prima per riconoscere all’impronta una pellicola da un’altra non sempre bastava l’occhio di un esperto direttore della fotografia, oggi quasi chiunque può individuare il tipico look della Canon 5D, un mix inconfondibile di iperdefinizione percepita, peculiare gamma cromatica e ridotta profondità di campo. È come se il digitale, colmato lo scarto qualitativo che lo separava dalla pellicola, avesse preso una strada propria lungo la quale i parametri tecnici della mimesi cinematografica, codificati e continuamente modificati per tutto il secolo chimico, sembrano essere ignorati. O meglio, sono pronti ad essere tranquillamente relativizzati come già accade nel campo della fotografia, dove il software Hipstamatic, applicando dei preset digitali, trasforma una qualsiasi foto dell’iPhone in un’immagine dal sapore vintage ispirata alle caratteristiche di celebri pellicole del passato.

Il passaggio è notevole, particolarmente visibile nel documentario che sul realismo di base del dispositivo cinematografico costruisce il suo patto con lo spettatore, ma in realtà esteso a tutta la rappresentazione cinematografica, che come dice Pietro Montani è chiamata in questa fase storica a “rinegoziare i
rapporti tra l’elemento finzionale e quello testimoniale” (12). Montani si riferisce principalmente alle immagini di film come Il signore degli anelli dove la matrice fotografica è sottoposta a rielaborazioni e vere e proprie “creazioni”, ma il discorso vale allo stesso modo qui, dove l’intervento di progettazione informatica è più limitato e sottile ma il suo uso più diffuso, generalizzato e nascosto. L’indicazione di Montani a favore di un cinema che riscopra l’elemento testimoniale attraverso “un ripensamento della tecnica in direzione di una dimensione etica che mi piacerebbe contrapporre a quella poietica tipica dell’estetica moderna” suggerisce la necessità di indagare i modi (e i modelli che gli informatici hanno in mente quando progettano il software di una videocamera) attraverso cui “i dispositivi tecnici sono in grado di raccogliere e mettere in forma la contingenza del mondo esterno”. Se è vero che “ciò che conta davvero è la capacità del cinema, sia di finzione che non, di accogliere l’imprevedibile e di portarlo dentro la propria struttura formale, conservandone i tratti di imprevedibilità” (13) non si può ignorare come questa operazione avvenga, attraverso quali filtri e quali trasformazioni, esplicite o implicite, ottiche o digitali che siano.

Cosa accade là fuori: il controllo e altre ossessioni in tre film esemplari

Quello che fa Nikolaus Geyrhalter in Abendland (Austria, 2011), riedizione high tech e politicamente corretta dei vecchi Mondo movies, è portare sullo schermo la “fortezza Europa” delle frontiere e di quei dispositivi di controllo, capillari e impersonali occhi meccanici nella notte, che vegliano silenziosi sulla nostra sicurezza. Nell’esemplare sequenza girata a Melilla, lungo il confine tra la Spagna e il Marocco, la macchina da presa osserva impassibile il funzionamento di videocamere di sorveglianza che operano in assenza o quasi di presenza umana. Macchine che guardano altre macchine, un dispositivo filmico che si presenta allo spettatore come il raddoppiamento del dispositivo di controllo, dove la cattura della realtà equivale all’individuazione del clandestino che cerca di entrare. Il cineasta si sottomette alla messa in scena del controllo e la filma “come se fosse la relazione cinematografica stessa”. Jean-Louis Comolli osservava qualcosa di molto simile a proposito di filmare il lavoro (14) quando sottolineava come il cinema fosse (e contnui a essere) “in primo luogo una macchina che eredita altre macchine, ossessionato e come affascinato da esse. Dialogo di macchine. Attrazione e seduzione che comportano un’accentuazione delle dimensioni plastiche e coreografiche nelle rappresentazioni del lavoro. Adorazione della superficie e del movimento come quintessenza dello spettacolo.” Con l’avvento dell’alta definizione il cinema documentario subisce evidentemente il fascino dei sistemi di sorveglianza, con cui condivide la tecnologia digitale e le qualità analitiche. Se adeguatamente messa in forma, la semi-immobilità del controllo può trasformarsi in uno spettacolo, terribile e affascinante, pronto a restituire nella sua vitrea plasticità un’esperienza cinematografica potente e stordente, perfettamente integrata all’attuale panorama audiovisivo.

I film-mondo, collezione spesso disinvolta di fatti diversi unificati dalla pretesa di esaurire un luogo, un tema, un universo, sono un campo privilegiato di questa tendenza. L’impassibilità e l’esibita oggettività dello sguardo trasformano in “naturale” ciò che in effetti è “culturale” (economico e tecnologico, a volte organizzativo e sempre storico) e la retorica argomentativa – spesso orientata a posizioni “apocalittiche” – si consolida in un’ideologia che non offre alternative al mondo come viene rappresentato. Nelle intenzioni di alcuni commissioning editors (Abendland è prodotto da ORF, ZDF e 3sat) è questo il cinema di nonfiction che può ritrovare le platee (televisive, ma in certi paesi europei anche cinematografiche) di un decennio fa ed è per questo che il filone vive oggi un certo rigoglio non solo festivaliero.

Ma non tutti i film-mondo sono uguali e non è difficile individuare alternative al modello egemone anche tra i film che assumono il set standard di regole del gioco (argomenti d’attualità, ampiezza della narrazione, alta qualità fotografica) (15). Il russo Viktor Kossakovsky, per esempio, con ¡Vivan las Antípodas! (2011) realizza un film-mondo che, pur condividendo l’alta definizione e i caratteri esteriori del filone cui appartiene, si fa beffe delle pretese universalistiche che lo contraddistinguono, individuando un principio d’ordine stravagante per quanto in sé rigorosissimo: il film racconta le relazioni che intercorrono tra una serie di coppie di luoghi collocati l’uno agli antipodi dell’altro, individuando somiglianze e affinità che appartengono all’universo della figurazione, dell’arte, dell’associazione mentale e che non vengono mai – tranne che nelle sue interviste happening – assunte come scientifiche e “naturali”. In Alpi (2011) l’artista e filmmaker italo-tedesco Armin Linke affronta molti dei luoghi fisici e simbolici di Abendland, ma la sua capacità di smascherare la monumentalità del potere passa attraverso una serie di procedimenti – l’ironia, l’incorniciamento, il “passo indietro” metaforico ma a volte anche reale – che lasciano allo spettatore lo spazio dell’interrogativo. Il suo sguardo, sempre riconoscibile nella composizione del quadro e nella durata della singola ripresa  (realizzate in pellicola super16), è schiettamente cinematografico, con una precisa consapevolezza del fuori campo e una moralità indiscutibile.

Il confronto più interessante viene però dall’esame del documentario italiano più premiato dell’ultima stagione, Il castello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (2011), girato anch’esso in HD. Nel primo episodio del film lo spettatore si trova coinvolto in una triangolazione di sguardi simile a quella proposta da Geyrhalter: l’osservazione del lavoro delle guardie di frontiera dell’aeroporto di Malpensa, dopo l’esposizione di una serie di protocolli standard (la simulazione dell’attentato, la verifica della freschezza delle derrate alimentari, le perquisizioni), approda all’individuazione – sugli schermi delle radiografie e poi negli interrogatori – di un corriere internazionale della droga. Se i nessi di causalità suggeriti dal montaggio tendono a giustificare la necessità del controllo, a differenziare il senso del lavoro di D’Anolfi e Parenti da quello di Geyrhalter è la qualità dello sguardo posato sugli uomini. L’impersonalità delle procedure – che, pur assistite dagli occhi meccanici, non prescindono mai dall’intervento umano – viene contrapposta all’irriducibile individualità del caso singolo e l’intera messa in forma è sostenuta dalla polarità tra sfondo geometrico e primo piano irregolare e vivo del personaggio. Ed è a quest’ultimo che la macchina da presa offre tutta la sua attenzione. Consapevoli che “la messa in scena è un fatto condiviso, una relazione” (16), i due cineasti accolgono – e regolano – l’autorappresentazione che l’uomo con l’intestino pieno di ovuli di cocaina organizza a beneficio degli agenti di frontiera, accettano di essere chiamati dallo stesso a garanti della correttezza delle procedure e si assumono i rischi che un simile coinvolgimento comporta. La scommessa è vinta. Pienamente inseriti nella tradizione del cinema diretto (il loro primo film, I promessi sposi, 2007, era una sorta di applicazione del dispositivo wisemaniano di Welfare (1975) e High School (1968) alla realtà dell’amministrazione pubblica italiana) e abituati a valutare lo spessore e la qualità drammaturgica delle autorappresentazioni che si offrono alla macchina, D’Anolfi e Parenti attribuiscono il giusto peso alla tecnologia e alla sua messa in scena senza farsi risucchiare dal suo fascino. Usano l’HD per entrare in sintonia con l’ossessione del controllo che domina l’universo dell’aeroporto ma poi, mostrando chi sta davanti e dietro alle videocamere di sorveglianza, mostrano l’umanissima, ambigua, vitalmente compromessa natura della loro attività.

Nelle prassi filmiche la rinegoziazione del rapporto tra testimoniale e finzionale di cui parla Montani è questione di istinto e di lavoro, di contingenze fortunate e di riflessioni a lungo termine. Pensare o essere pensati dalla macchina, progettare o subire il dispositivo con cui si intende affrontare e trasformare la realtà non si presenta mai come un’alternativa netta e facilmente riconoscibile. Come ho cercato di mostrare in queste note è compito della teoria ma soprattutto del serrato confronto con i film individuare i modi e i tempi di questo relazione. Si tratta del campo specifico della critica che però in Italia, con pochissime eccezioni (17), ignora tranquillamente il documentario. Ma questa è davvero un’altra storia.

NOTE

(1) Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano, Venezia, Marsilio, 2008, p. 290.
(2) Si veda a titolo d’esempio lo speciale “Le cinéma direct, et après?”, in Images documentaires n. 21 Parigi 1995.
(3) Fabrizio Grosoli, “Doc in tv. L’esperienza di Tele+”, in Marco
Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria, Torino Lindau, 2003, p. 345.
(4) L’ultimo in ordine di tempo è quello della Film Commission Valle
d’Aosta, mentre nel 2008 ha avuto un’importanza notevole l’episodio
isolato del Fondo cinema della Provincia di Milano.
(5) Tra i cinquantadue film completati nel triennio 2007-2009, 15
sono prodotti da società non piemontesi, ma di questi solo due sono
privi di connessioni forti con il territorio o sono diretti da registi
non piemontesi. Cfr. Relazione 2010. Elenchi, tabelle e foto in
www.fctp.it/info_pdff.php?&lang=_it.
(6) Cfr. Marco Bertozzi, “A rapporto! Uno sguardo sul Piemonte Doc
Film Fund” in www.fctp.it/info_pdff.php?&lang=_it, Torino 2010.
(7) Si pensi a Luciano Barisone, direttore dal 2011 di Visions du
Réel di Nyon, uno dei più importanti festival europei di documentari.
(8) Gli ultimi e più importanti sono il premio raccolto agli Hot Docs
di Toronto da Il castello di D’Anolfi e Parenti e quello riportato a
Cinéma du Réel di Parigi da Palazzo delle Aquile di Stefano Savona.
(9) Cfr. Emiliano Morreale, “Nouvelles images du cinéma italien”, in Cahiers du Cinéma n. 662, dicembre 2010.
(10) Bill Nichols, Introduzione al documentario, Milano Il Castoro,
2006; Guy Gauthier, Storie e pratiche del documentario, Torino Lindau,
2009.
(11) Marco Bertozzi con la collaborazione di Gianfranco Pannone (a cura di), L’idea documentaria, Torino, Lindau 2003.
(12) Mazzino Montinari (a cura di), “Il cinema al bivio. Intervista a Pietro
Montani”, in Close-up n. 16, sett. 2004.
(13) Id.
(14) Jean-Louis Comolli, “Corps mécaniques de plus en plus célestes”,
in Images documentaires n. 24 1996; trad. it. in Filmmaker 10, Milano
1999.
(15) Al di fuori delle quali è da segnalare il lavoro di Anna Franceschini, che nel piano sequenza di 14 minuti che compone Nothing is [Is] More Mysterious. A Fact That Is Well Explained
(2010) mette in scena il confronto tra due macchine del millennio
scorso, una pianola meccanica conservata in un museo di Amsterdam e
un’Arriflex 16mm muta.
(16) Comolli, op. cit.
(17) Il Manifesto e occasionalmente L’Unità tra i quotidiani, Duel e Close-up tra le riviste.

Per gentile concessione del curatore. Testo originariamente pubblicato all’interno di Il reale allo specchio. Il documentario italiano contemporaneo, a cura di Giovanni Spagnoletti, Marsilio 2012.