In quanti siamo rimasti a parlare cinema? E che cosa significa parlare cinema oggi? Inutile dilungarsi sulla diffusione delle immagini e su come il cinema sia di fatto l’ur-sintassi delle comunicazione visiva. Resta il nocciolo di fondo: in quanti siamo rimasti a parlare cinema? A fronte dell’accoglienza ricevuta dagli ultimi due film di Steven Spielberg, dovremmo concludere che non siamo poi rimasti in tanti. Sia Tintin che War Horse hanno subito, in forme opposte, un ostracismo di pubblico e critica decisamente interessante (e diametralmente opposto per quanto complementare). Se su Tintin è caduto come una mannaia il solito pregiudizio del “Spielberg è un tecnocrate che non fa più cinema”, su War Horse è piombato il pregiudizio gemello: “Spielberg è un sentimentale invecchiato malissimo”. È evidente: c’è qualcosa che non va, soprattutto se si pensa che la medesima categoria degli avversi a Spielberg osanna Hugo Cabret con una determinazione e un impegno degni d’altra causa.
Se dunque Tintin rievoca il cinema degli anni Quaranta come un’immersione paramnestica in un mondo che non è mai esistito – ossia ripensare Gunga Din esclusivamente sulla base dei propri ricordi, come se l’esperienza dei primi film fosse una sorta di edenica sinestesia –, War Horse compie il percorso inverso. Non si tratta di calligrafia classica: è cinema al calor bianco, inteso come condivisione di una tradizione formale e di un linguaggio da utilizzare al presente. Non siamo nel regno ipocrita degli artisti in cui si rimpiange il cinema delle origini trasformandolo nella seduzione definitiva del digitale (Scorsese e Hazanavicious, in misura diversa ma complementare, partecipano entrambi del complotto del cinema mondialista: il “grande” cinema, la “grande” emozione, la “grande” regia… tutto “grande” in un cinema infinitamente modesto e piccolo…). Spielberg, che al pari di George Lucas, ha evocato l’orizzonte filmico nel quale ci muoviamo, utilizza il cinema di una volta, inteso come possibilità di raccontare il mondo attraverso inquadrature e raccordi di montaggio, per confrontarsi con il suo e nostro tempo. In War Horse non c’è il pigro omaggio ai classici, quanto la partecipazione sofferta tesa a comprendere se e come nel mondo ci sia ancora spazio per il cinema. Perché, e su questo punto Spielberg è avanti a tutti, è il cinema che ci restituisce un’immagine del mondo. Il contrario non è cinema. Il mondo non diventerà mai un’immagine di cinema. È per questo motivo che Rossellini è stato in grado di inventare un nuovo mondo dalle macerie della seconda guerra mondiale. Allo stesso modo Spielberg, restando nell’ambito del cinema hollywoodiano amato da ragazzo, non reputa quel cinema un oggetto di culto feticistico, come purtroppo oggi capita anche a Scorsese, quanto un corpo vivo, ancora in grado di raccontare e vivere. Se Spielberg si fosse limitato a creare un calco del cinema di Victor Fleming o di George Stevens, War Horse si sarebbe risolto in un fallimento. La differenza fondamentale sta nella radicalità politica attraverso la quale il regista assume l’intero apparato poietico e linguistico del cinema da lui amato non come esperimento linguistico, ma come snodo attraverso il quale continuare a stare nel mondo.
In un paesaggio critico in cui basta notare un’inquadratura composta da tre quarti di cielo e un quarto di terra per esclamare “fordiano”, Spielberg va ben oltre la mera segnaletica citazionista. Spielberg oggi, insieme a pochi altri, è il cinema americano. Quel cinema che non fa chic citare nei salotti di coloro che discettano di Von Trier e ragionano sulla cosiddetta neocommedia all’italiana.
La potenza narrativa di Spielberg sta tutta nella convinzione con la quale abbraccia la tradizione per calarla nel panorama del cinema contemporaneo retto da motion capture, 3D e animazione. Lo sforzo titanico di War Horse di offrirsi allo sguardo di una generazione cresciuta negli I-Max, con i videogiochi e le contaminazioni prodotte dalla diffusione delle tecnologie domestiche, è semplicemente impensabile. Non siamo dalle parti di Scott Hicks o di un Lasse Hallstrom, ossia la maniera della maniera che mentre pensa di fare il cinema di una volta, scimmiotta semplicemente i peggiori luoghi comuni dell’immaginario.
No.
Spielberg nel suo film cala la potenza populista di John Ford ricorrendo a tutto l’armamentario di Cecil B. De Mille, incuneandolo nel solco liberal di George Stevens e inoltrandosi persino nel territorio di Andrew McLaglen (il magnifico finale che incrocia Via col vento e Shenandoah – La valle dell’onore).
Spielberg è ancora convinto che nel mondo ci sia posto per il cinema. Il cinema: quello inventato da David W. Griffith, quello celebrato da De Mille, santificato da Ford e celebrato da Hawks.
Per Spielberg il cinema è un’arte del presente. Dove un montaggio parallelo è questione di vita o di morte. Dove in una medesima inquadratura può finire la guerra. Il cinema: quello che ti fa agognare un lieto fine intuito sin dalle prime inquadrature, ma non per questo meno vero, potente, sincero, commovente quando finalmente giunge liberatorio. Pura arte creatrice che apre lo sguardo con lacerazioni visionarie restando aggrappata alla terra.
Spielberg usa il cinema come se fosse (e lo è) la sua lingua materna. La lingua con la quale ha imparato a orientarsi nel mondo (e non c’entra niente il decostruzionismo stile Tarantino…). Quando Spielberg muove la macchina da presa sembra di vedere un aratro che semina nello sguardo (e ci piace pensare che questa immagine sia tematizzata nel film). Dai solchi di questo aratro sorge un mondo: il mondo del cinema.
War Horse, regia di Steven Spielberg, USA/India 2011, 146′