Fondare una rivista di critica cinematografica nel 2011 è un atto di resistenza. Cartacea o online non fa differenza: è una questione di impegno e fiducia nelle potenzialità aggregative di chi ancora chiede qualcosa al cinema ed è alla ricerca di luoghi in cui condividere tale necessità. Per questo siamo felici che filmidee, già dal suo primo numero, abbia avuto un forte riscontro, suscitando interesse e discussione, permettendo di dare vita in poco tempo a un gruppo di lavoro che si impegna a sostenere il progetto. Ne è una prova l’essere riusciti a comporre “in diretta”, nei dieci giorni di Venezia 68, un numero della rivista insieme a una decina di collaboratori mossi dagli stessi intenti in base ai quali è stata fondata filmidee (e grazie anche all’interessamento e alla disponibilità dimostrata dai giovani curatori della sezione Orizzonti). Ma, a rafforzare l’entusiasmo, c’è anche il sostegno da parte di tutti coloro che ci hanno letto e scritto, rendendoci ancora più consapevoli del fatto che un certo cinema, relegato sempre più ai margini dell’industria culturale, è invece fonte di interesse e stimolo per le nuove generazioni di cinefili.
La conferma che il cinema non sia morto, e che possa essere tale solo nello sguardo pigro e ottuso di una parte della critica, ce l’ha data l’incontro folgorante con un film capace di unire le tensioni etiche proprie di questo momento storico con una riflessione consapevole e puntuale sulla forma cinematografica e il suo stato attuale. Low Life di Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval è un film sugli esclusi della società contemporanea, i giovani e i clandestini, raccontati nel loro potenziale primigenio di continua rinascita e rivolta all’ordine costituito. Lavorando sulla superficie dell’immagine digitale e rielaborando i topoi della cultura occidentale (da Dostoevskji a Hamlet Machine, passando per la disillusione generazionale di Il diavolo, probabilmente di Bresson), la coppia di registi francesi, fuori dalle strutture modaiole del cinema parigino, ha realizzato un’opera capace di indagare la necessità dell’arte cinematografica e le forme della ribellione. Temi cari a un giovane cineasta militante, anche lui francese, Sylvain George, che in L’impossible ha unito in un solo sguardo le barricate studentesche e le condizioni degli immigrati di Calais. Il suo cinema radicale, frutto di un’elaborazione e una pratica totalmente autonome e indipendenti, ha ricevuto un riconoscimento internazionale grazie allo straordinario poema visivo Qu’ils reposent en revolte e trova rinnovato vigore in Les éclats, presentato al Torino Film Festival e al Filmmaker Festival di Milano.
Se il primo numero di filmidee era dedicato alla pratica critica, il secondo vede protagonisti cineasti che si confrontano con la realtà e impongono una propria visione in grado di sovvertire i codici prestabiliti. In un momento in cui i reality stanno esalando i loro ultimi respiri a favore di altre community, ripercorrere la carriera di un grande documentarista dimenticato come il canadese Allan King ci offre l’occasione di ripensare l’etica dell’autorappresentazione. L’uomo che ha saputo dare dignità al pianto dei disoccupati, all’isteria dei bambini emotivamente disturbati e all’ultimo respiro dei malati terminali, è stato un regista capace come pochi di riflettere sull’essenza umana riconosciuta per mezzo dell’alterità, e di mostrare come qualunque sovversione sia prima di tutto “una sovversione della consapevolezza”.
Da questo numero inauguriamo una nuova sezione intitolata “Lo stato delle cose”, volta a proseguire la riflessione su cinema e cinefilia all’epoca di Internet che costituisce uno dei nuclei fondanti della nostra rivista. Nella consapevolezza che la lettura vada accompagnata alla visione, sabato 19 novembre festeggeremo l’uscita del secondo numero di filmidee con un’intera giornata di proiezioni al Cinema Gnomo di Milano.
Daniela Persico / Alessandro Stellino