Nel 1992, Marcel Marx, scrittore squattrinato, si arrabatta come può per mettere insieme il pranzo con la cena. A Parigi divide l’alloggio con due amici, il pittore Rodolfo, immigrato irregolare, e il musicista Schaunard.
Vent’anni dopo, Marcel vive a Le Havre, ha abbandonato le velleità letterarie per esercitare la nobile professione del lustrascarpe (“coloro che si avvicinano di più ai principi espressi nel Discorso della montagna”), e vive con Arletty, l’unica donna che è riuscito a strapparlo alla sregolatezza bohèmienne.
Anche per Aki Kaurismäki sono passati quasi vent’anni da allora: alcune figure sono scomparse (Matti Pellonpää, che in Vita da bohème interpretava Rodolfo, è morto nel 1995), altre sono rimaste saldamente al loro posto, come il cinematographer Timo Salminen, che dalla Parigi in bianco e nero di allora è passato ai colori pastello della Le Havre di oggi. Kaurismäki ha proseguito imperterrito la sua strada: attraverso il muto Juha (1999) ha in qualche modo “regolato i conti” con le proprie ascendenze più o meno dirette (la comicità di Chaplin e Keaton, il melodramma romantico di Murnau), mentre con gli apologhi umanisti di Nuvole in viaggio (1996) e soprattutto de L’uomo senza passato (2002), ha raggiunto la piena maturità. Infine, dopo il pessimismo “bressoniano” di Le luci della sera (2006), si arriva a quest’ultimo Miracolo a Le Havre. Il quale è, in fondo, un ulteriore capitolo dell’ampio affresco sulla vita dei marginali che Kaurismäki è andato componendo nel corso della propria carriera di cineasta: storie di vite precarie e di identità cancellate (si veda il caso di Chang, collega lustrascarpe del protagonista, ormai adattatosi a vivere con un nome non suo), vissute – e narrate – senza pietismi, bensì con lucidità e umorismo. Una comicità bisbigliata, lunare, che qui, forse più che negli altri film, diventa il grimaldello che fa saltare il confine fra una realtà opprimente e il sogno di una realtà diversa, migliore. Il regista non rimuove la realtà e la sua durezza: ma di fronte all’assurdo furore burocratico con cui l’Autorità gestisce la questione dei profughi, è necessario replicare con una battuta altrettanto assurda (“Sono l’albino della famiglia”). Per lo stesso motivo, nel film possono coesistere senza problemi immagini apparentemente stridenti fra loro: quelle trasmesse da un televisore del brutale sgombero di un campo profughi (quasi le stesse che abbiamo visto nell’ultimo Les éclats di Sylvain George), che i personaggi osservano con muta indignazione; e quella surreale dell’ufficiale di polizia Monet (Jean-Pierre Darroussin) che entra in una mescita reggendo in mano un ananas.
C’è molto cinema, in Miracolo a Le Havre. C’è l’eco di Chaplin (Luci della città), il realismo poetico di Carné, l’anarchismo umanista di Vigo, ma anche la comicità rarefatta di Tati (Mon Oncle), che la presenza nel cast di Pierre Étaix e Luce Vigo non fa che confermare. C’è anche un rimando meno esplicito a un certo universo noir: un cinema cinico e morale, come il dostoevskiano Monet, sbirro che giudica gli uomini per quello che sono, e non per quello che riportano i loro documenti. La continuità stilistica fra questo film e i precedenti è palese, tanto che ci si potrebbe domandare, come qualcuno ha fatto, che cosa davvero aggiunga questo film al cinema ormai perfettamente “formato” di Kaurismäki. Tuttavia basterebbe vedere come questo stile abbia raggiunto una tale sapienza – brunelleschiana? – nel gestire lo spazio all’interno dell’inquadratura (lo spessore di una porta crea uno split-screen: a destra il poliziotto Monet, dall’altra il giovane Idrissa), o come possa adottare la camera a mano in una scena concitata senza suonare minimamente stonato (la corsa di Idrissa), per capire che Kaurismäki è ben lontano da ripiegare nel manierismo di se stesso.
Vent’anni son passati, si diceva. Nel finale di Vita da bohème, Rodolfo/Pellonpää, distrutto dalla morte della sua Mimì, si allontanava inghiottito dal buio del bianco e nero. Al suo amico Marcel (André Wilms), invece, il regista riserva un epilogo ben diverso: un miracolo (laico?) sottolineato dalla colorata immagine finale del pesco rifiorito. Una fuga definitiva nella fiaba? Più probabilmente, una volta di più, Kaurismäki ha voluto riscattare il destino precario dei suoi “ultimi” nell’unico modo che gli è possibile: attraverso le fragili armi della fantasia – e della celluloide.
Miracolo a Le Havre (Le Havre), regia di Aki Kaurismäki, Finlandia/Francia/Germania 2011, 93′