Il nuovo drama Hbo pone diverse questioni interessanti, ma quella che più colpisce il cinefilo – se volete per vizio congenito – è l’autorialità. La serie è infatti creata da David Milch e prodotta, tra gli altri ma sopra gli altri, da Michael Mann. I due, per incompatibilità per così dire caratteriali (dopo un pilot in cui si sono gridati dietro tutto il tempo), hanno deciso di dividersi rigidamente i ruoli, ponendo reciproci steccati. A Mann toccano le riprese e il montaggio, a Milch la scrittura. In un contesto televisivo questa responsabilità si estende a tutti gli episodi, anche quelli che non firmano direttamente, sotto forma di supervisione dei registi di turno e del team di sceneggiatori (la “writers’ room”). In pratica sono entrambi showrunner, per aspetti diversi della produzione. A leggere i credits sembra una situazione del tutto analoga a quella di Boardwalk Empire, dove Scorsese è come Mann regista del pilot e produttore della serie.
Ma basta vedere due episodi per accorgersi della macroscopica differenza. Il pilot di Boardwalk Empire è infatti dispendioso, con numerose canzoni d’epoca in colonna sonora e riprese con gru, dolly e carrelli; dunque è quanto di più cinematografico si possa vedere in Tv. Per ovvie ragioni economiche, però, le puntate successive non possono proseguirne la magniloquenza e così i movimenti di macchina, pur ben calibrati, si riducono. Scorsese insomma è più un prestigioso guest director che non l’autore della bibbia registica della serie. Una sorta di via di mezzo è il coinvolgimento di Gus Van Sant in Boss, dove le scelte di messa in scena del pilot saranno proseguite nelle puntate successive, in forma leggermente attenuata: la fotografia è meno precisa nel declinare la scala di grigi (fa eccezione il finale di stagione) e si fa minor ricorso a piani ravvicinatissimi. Si tratta pressappoco di quello che avviene in una normale serie Tv, dove il pilot detta le regole e i registi successivi cercano di attenervisi, anche se in questo caso la forma è particolarmente elegante e inconsueta.
Luck costituisce invece un caso diverso: il pilot si avvale di largo uso di musica e di complesse riprese ravvicinate dei cavalli in corsa, così come di primi piani cui il sonoro conferisce una qualità despazializzata (non diversamente da quelli di Boss, ma sul versante opposto dello spettro emotivo: freddo Boss, empatico Luck). Tali scelte si ripresentano nelle puntate successive, in qualche caso con esito ancora più marcato. Per esempio la corsa del quarto episodio, appassionatamente seguita da Nick Nolte, raggiunge un’intensità superiore alla gara del pilot: la macchina da presa si attacca sempre più agli occhi dell’attore, la musica è prima incalzante e poi avvolgente quando le gesta del cavallo in gara innescano una sorta di estasi, epifania che il montaggio connette a vari personaggi tra gli spalti e giustappone al calvario privato di altri, lontani dall’ippodromo. Il tutto denota una marca manniana riconoscibile, a differenza di Boss, in cui il nome di Van Sant non è il primo che verrebbe in mente senza averlo letto tra i credits.
Dunque l’autorialità del regista e produttore in Luck è evidente, ma come nel migliore dei casi – anche al cinema – quella dello sceneggiatore non è da meno. I personaggi ripresentano gli elementi del corpus sociale milchiano cui lo scrittore ci ha abituato quantomeno da Deadwood, la sua prima collaborazione con HBO, e che esistevano in nuce anche nelle sue serie precedenti. Vi ritroviamo infatti: le dinamiche di amicizia virile tra slanci sacrificali e scorbutico turpiloquio, le gesta dei potenti con la tendenza al soliloquio e spalle che – per quanto fedeli – non possono stare al loro passo, il controcanto del gruppo di losers afflitto da vizi più forti del singolo e l’importanza della comunità nel salvare o schiacciare le sue più piccole parti. E poi, ovviamente, le stesse corse dei cavalli, ossessione personale di Milch, che qui diventano un canale verso il mistero della natura.
La fortuna del titolo, poi, non è solo quella degli scommettitori, piuttosto si tratta della dea bendata intesa come destino in senso più ampio, i cui mutevoli favori spiazzano tanto i poveracci che tirano a campare quanto quelli che credono di manipolare le sorti degli altri. Il tutto visto con una consapevolezza della società come una sorta di organismo che sconfina nella spiritualità. In comune con Mann c’è poi l’epica e l’etica della professionalità, dell’essere il più in gamba possibile in quello che si fa, un codice applicato con rigore da bushido, condiviso dai due sia in rapporto a quel che raccontano sia al proprio modo di lavorare. Ed è proprio perché vedono e rispettano l’uno le qualità superiori dell’altro, che una serie prodigiosa come Luck trova modo di esistere. Difficilmente un simile livello di convivenza tra giganteschi talenti potrà essere preso a modello e replicato, e in ogni caso non è detto che tale equilibrio resista per molte stagioni. Come molte tra le cose migliori della vita, Luck, anche per via del costo di produzioni e degli ascolti non entusiasmanti, è una rarità quasi sicuramente effimera. Effimera ma già destinata a restare.
Luck, serie televisiva, regia (dell’episodio pilota) di Michael Mann, USA 2011