Forse per immaginare il futuro bisogna partire dalle rovine del presente, da quel margine sfrangiato d’incompiutezza dove le cose si sgretolano e si rimescolano, sopravvivendo in uno stato di perpetua mutazione, innominabile ricchezza che si sottrae alle semplificazioni dell’idea di progresso. Il cinema di Ben Rivers ha allora qualcosa da dire sul futuro, non solo perché è una delle esperienze di visione più originali, vivificanti e promettenti che siano capitate al cinema negli ultimi anni, ma perché si offre come una mappatura poetica di questo territorio di possibilità e indeterminazione, in cui gli spazi e gli esseri sono plasmati dall’azione lenta delle forze che li attraversano.
Muovendo dalle prime esplorazioni visionarie di luoghi desolati o spettralmente abitati (We the People, The Hyrcinium Wood, The Coming Race, House, 2004-2006), Rivers si è progressivamente avvicinato a una forma filmica che sembra voler prescrivere all’osservazione etnografica i tempi e le modalità della geologia e fare del film stesso un fossile vivente, concrezione fulminante e maestosa dell’impercettibile fermento che pervade il reale. Quello che resta incrostato nelle grana crepitante delle sue pellicole è il tempo in quanto traccia, pulviscolo della durata vissuta che si compone in scenari sublimi e frammenti di elegia quotidiana: una costruzione nel materiale che si affida alla essenzialità tagliente delle inquadrature e alle pacate folgorazioni del montaggio, un paziente lavoro di scavo nel paesaggio che ne lascia affiorare la stratificazione temporale attraverso la disponibilità di un’osservazione prolungata e partecipe. Lo sguardo di Rivers ha una predilezione per gli strati e gli accumuli critici, per le sovrapposizioni casuali e gli assemblaggi rivelatori, per i dettagli materiali in cui precipita l’azione potente e sommessa del tempo: neve, ragnatele, discariche, la sua è una contemplazione delle rovine che risparmia le lamentazioni pessimistiche da critico della cultura, animata piuttosto dalla passione del naturalista per la metamorfosi e la germinazione del nuovo.
Frammenti di un atlante nomade, appunti e registrazioni raccolti su una frontiera antropologica, i film di Rivers delimitano una zona di resistenza temporale, sospesa tra il racconto mitico e l’apologo fantascientifico, dove bivaccano eremiti e pionieri, naufraghi di civiltà scomparse o bricoleur di mondi a venire: una prospettiva che coinvolge le origini e la destinazione dell’umano e si rapprende nell’esperienza particolare di un luogo e della relazione d’intensità che con esso instaurano le creature che lo abitano.
Intercettiamo Ben nei suoi incessanti spostamenti, a conclusione di un anno che ne ha visto la definitiva affermazione, con tre importanti lavori che hanno girato per festival di vario formato e gallerie, riscuotendo consensi e riconoscimenti. Slow Action, finzione enciclopedica tra Swift e Borges (con la collaborazione dello scrittore di fantascienza Mark Von Schlegel), si presenta come installazione multicanale o film in quattro capitoli dedicati ad altrettante micro-società insulari prodotte dall’innalzamento degli oceani, realizzazioni e aberrazioni del concetto di utopia. Sack Barrow è un’indagine alchemica del tempo sospeso e cristallizzato in un piccolo impianto di galvanoplastica prossimo alla chiusura. Two Years at Sea, il suo esordio al lungometraggio, ritrae con humour sottile e sincera emozione la scelta di libertà dell’amico Jake Williams, che ai margini della civiltà costruisce la propria vita felice con materiali di recupero. Di questi film, dei nuovi progetti, dell’idea di cinema errante e resistente che da essi emana, ne parliamo con Ben Rivers nell’intervista che segue.
So che sei di ritorno dalla Norvegia, dove stai finendo di girare un lungometraggio con Ben Russell. Potresti dirmi qualcosa a proposito?
Il film si chiama A Spell to Ward off the Darkness e considera tre diversi modi di vivere nel mondo di oggi. Vediamo il nostro protagonista, interpretato da Robert A. A. Lowe (aka Lichens), vivere nella solitudine della Finlandia del Nord; poi mentre rivisita una comune per prendere parte a discussioni su cosa significa vivere collettivamente nel ventunesimo secolo; e infine suonare con una band black metal in Norvegia, una situazione che ha che fare con l’incarnarsi, vivere il momento, nell’oscurità, l’atmosfera surriscaldata e frastornante di un concerto black metal. Stiamo girando il film in tre diversi paesi scandinavi perché il progetto in parte è nato da discussioni sull’idea del Nord, sull’oscurità scandinava, sui reenactment vichinghi e il sublime della natura selvaggia.
Tu e Ben siete rappresentanti di un cinema che si situa in una tensione tra documento e finzione. Si può dire che, da prospettive differenti, abbiate entrambi lavorato alla ridefinizione di un approccio etnografico al cinema, deviandolo completamente da qualsiasi intento scientifico di analisi o spiegazione e puntando verso ciò che è misterioso e sconosciuto: che cosa vi ha condotto a lavorare insieme e, alla luce di questa collaborazione, quali pensi che siano i punti che condividete nel vostro lavoro?
Ben e io abbiamo fatto un tour agli Antipodi [Australia e Nuova Zelanda] nel 2008 mostrando cinque film per ciascuno in un programma intitolato We Can Not Exist in This World Alone – e durante questa avventura, guardando insieme i nostri film a volte così diversi, abbiamo visto più chiaramente il modo in cui le nostre idee potevano trovare un accordo e come questo avrebbe portato a un film in collaborazione. Ben ha una conoscenza più approfondita della storia del cinema etnografico, mentre il mio contatto con esso è avvenuto solo attraverso i lavori di Jean Rouch, Tim Asch, Trinh T. Minh-Ha e Robert Gardner, tutti eccellenti professionisti del cinema che lavorano con la forma per informare il contenuto. Una cosa fondamentale che ci unisce è il viaggio, un senso dell’avventura che diventa spinta a comprendere come le diverse persone vivono nel mondo e come i nostri film possono rendere conto di questo senza illustrarlo, in maniera cinematografica, capace di creare un mondo che esiste interamente per il cinema. Sono molto scettico riguardo all’utilizzo del cinema come strumento in vista di una finalità specifica – sia essa scientifica, politica o di altro genere –, mi interessa il cinema come catalizzatore per il pensiero e l’immaginazione, ma se gli imponi un fine specifico, questo finisce per ridurlo a quella singola cosa. Il mistero diventa allora una parte del progetto, un’apertura all’interpretazione di azioni e immagini.
Una cosa che mi ha molto colpito del tuo cinema e che mi sembra emerga come sempre più centrale nei tuoi film è la figura e la funzione dell’isola. Non tanto come metafora, quanto come quella che definirei una versione cinematografica del concetto letterario di “cronotopo” coniato da Michail Bachtin, ovvero “l’intrinseca connessione della relazioni spaziali e temporali” così come viene espressa in un medium specifico. Penso ovviamente a Slow Action, ma, in senso più ampio, anche il cottage di Jake in Two Years at Sea, la fabbrica di Sack Barrow e le pozze di sostanze tossiche che percolano dalle sue vasche chimiche (o ancora la padella unta che in Origin of the Species hai ripreso in un piano ravvicinato che evoca una sorta di brodo primordiale), sono tutti particolari casi di isole, in cui distacco fisico implica un miscuglio anacronistico di temporalità, un intreccio di decadimento e rinnovamento che genera qualcosa di “ricco e strano”. Come sei arrivato a interessarti a questa ‘condizione insulare’ e qual è la sua relazione con il concetto di utopia che hai esplorato in particolare in Slow Action?
Quando ho cominciato a fare ricerche per Slow Action si trattava di una commissione per le celebrazioni dell’anniversario dell’Origine delle specie di Darwin, e dato che avevo appena letto alcuni dei suoi libri conoscevo l’importanza delle isole nel suo lavoro. Ho cominciato a parlare con gli scienziati nel campo della biogeografia insulare, che osservano come le specie si sviluppano in ambienti specifici circondati da non-ambienti e come le stesse specie possono svilupparsi diversamente se isolate dallo stesso ramo a uno stadio precedente. Lessi un articolo su un gruppo di ricerca che studiava i batteri che proliferavano nelle diverse pozze d’olio di una sala macchine e mi resi conto che l’idea di isola non è esclusiva delle isole marine – allora ho pensato che era la stessa cosa su cui stavo lavorando da anni, tranne che ne avevo sempre parlato come di mondi ermetici, ma è sostanzialmente la stessa cosa: spazi chiusi in cui l’esterno resta in qualche modo tagliato fuori. Con Slow Action ho scelto di occuparmi deliberatamente di isole nel mare, pensando certo anche a Galapagos di Kurt Vonnegut (via Darwin), la Nuova Altantide di Francis Bacon e altre narrazioni utopiche come Erewhon di Samuel Butler. A questo punto mi sono lasciato dietro l’aspetto scientifico della ricerca e mi sono addentrato più decisamente nella fantascienza, che mi ha permesso di esplorare liberamente l’idea di come diverse Utopie potrebbero svilupparsi se lasciate sole coi propri mezzi su isole separate da tutto il resto. Quello che mi interessa è come Utopia possa significare cose diverse per diverse persone, e come si possa trovare la propria personale Utopia – come fa Jake in Two Years At Sea o Harai nel capitolo di Kanzennashima in Slow Action, dove la solitudine (e nel caso di Harai la follia) equivale all’estrema libertà – , mentre altre persone non aderirebbero a questa scelta e a questa equivalenza. Il che ci riporta alla questione dei film usati come strumento politico: non direi che la vita di Jake è migliore di quella che fa qualcun altro, direi piuttosto che per lui funziona, e affascina anche me, ma non è questione di giusto o sbagliato quando si parla di Utopia, ed è questo che la rende interessante e, alla fine, irraggiungibile su una scala universale, perché gli esseri umani sono troppo complicati. Ecco perché ho voluto che il capitolo finale di Slow Action fosse su un’isola in perenne stato di rivoluzione, con tutta la violenza che ciò comporta, per far pensare a come anche quella possa essere considerata una forma di Utopia se osservata da una certa prospettiva; gli abitanti di quel luogo hanno trovato una specie di libertà in un perpetuo stato di flusso, perché in esso nessuna fonte di potere o dogma riesce mai a imporsi come dominante.
Quello che trovo più interessante nel modo in cui descrivi l’isolamento è il fatto che, invece di delimitare semplicemente un ambiente chiuso in se stesso, diventa condizione di possibilità per uno spazio permeabile e nomade. Da una parte il bricolage improvvisato e traballante della casa di Jake, nella sua qualità di assemblaggio aperto, sembra intrattenere una relazione di continuità con la natura che lo circonda, come un’interpenetrazione, un reciproco riversamento dell’interno e dell’esterno. D’altra parte, mentre seguiamo i suoi vagabondaggi nella natura, ci facciamo l’idea che Jake sia in grado di stabilire questa relazione ovunque si trovi, un ‘insediamento errante’, se mi concedi il paradosso. Ho l’impressione che questo dissolversi dei confini, che include l’appropriazione di uno spazio con la disponibilità a lasciare che le forze esterne invadano questo possesso temporaneo, sia in qualche modo riflessa anche nel modo in cui tu stesso lavori. C’è una relazione tra questo approccio allo spazio e il modo in cui fai esperienza e riprendi i paesaggi che incontri? Come trovi un equilibrio tra predisporre il materiale e lasciare che prenda il sopravvento, sfugga al controllo?
Penso che in questo caso il nomade sarei io, mentre le persone che incontro sono spesso ben radicate nel luogo in cui stanno. Detto questo, non sono personaggi ‘posati’, sono curiosi e interessati al mutamento del loro spazio, soprattutto attraverso il riutilizzo di materiali residui della società (magari di una passata), all’insegna dell’inventiva e dell’economia. È come dici, un riversarsi dell’interno nell’esterno, e a volte l’inverso, si crea una simbiosi con la natura che avvolge questi luoghi. Diventa molto simile a un assemblaggio scultoreo, che riflette il modo in cui lavoro, oppure il modo in cui lavoro riflette il loro spazio, comunque tu voglia considerarla. Nel caso di Jake in This Is My Land, ho assemblato il film solo dopo essere rimasto in casa sua per un paio di settimane, senza avventurarmi fuori da quel mondo: sarebbe quindi stato in ogni caso un collage di oggetti trovati, immagini e suoni recuperati in un’area ermetica ben specifica. Cinque anni dopo con Two Years at Sea non volevo ripetere la stessa strategia lì da Jake, così è diventato da subito importante allontanarlo dalla sua casa e farlo muovere nel mondo circostante – in un certo senso questo riflette il carattere del suo personaggio, che è al tempo stesso ben felice di stare nel suo spazio chiuso fra casa e giardino, immerso nella foresta, ma è anche un tipo molto libero, che ha la capacità di girovagare e fermarsi a dormire quando e dove gli pare, cosa che diventa un’immagine ricorrente nel film. Ma per tornare a quanto ho detto prima, questo riflette anche il modo che ho io di vagare e perdermi nelle fantasticherie, di non restare legato a un posto particolare. Sia durante le riprese che in fase di montaggio conservo sempre una mente nomade – c’è il controllo, idee di messinscena che voglio ottenere nel film, ma poi resta un margine di disponibilità a perdere quel controllo, a lasciarsi trasportare dall’imprevisto. Nel caso della ripresa ovviamente questo può essere qualcosa di più indomabile e sorprendente, che può arrivare a cambiare l’intera forma del film. Nel montaggio si può dire che succeda il contrario, si tratta di provare a dare senso e ordine o ritmo alla intrattabilità del materiale.
Parlando ancora dell’idea di assemblaggio, come si relaziona al modo in cui monti il tuo materiale? E che ruolo gioca il suono (e il suono non sincrono in particolare) in questa giustapposizione?
Dopo l’idea iniziale, filmare è un processo di avventura che permette al film di prendere tangenti che lo portano lontano da quello che avevo in mente al principio. Questo spesso si è tradotto in riprese multiple divise nel tempo: passo del tempo in un posto, giro in modo piuttosto libero, poi torno a casa, sviluppo il materiale e guardandolo comincio a farmi un’idea della direzione che sta prendendo il film. Dopo di che, ritorno sui luoghi con una strategia più decisa, anche se conservo sempre un sacco di spazio alla serendipità. Mi piace pensare a questa parte come qualcosa di fisico, che si vive nell’istante. Il montaggio poi può essere molto diverso, cerebrale: un sacco di tempo passato a fissare il vuoto, procrastinare, bere incalcolabili quantità di tè. Di solito comincio con un inizio e una fine, poi lavoro ad altri spezzoni – e lavoro da subito col suono, provando varie soluzioni e stando attento a cogliere i momenti in cui il materiale si “illumina”. Se non so decidermi, di solito metto a caso una serie di registrazioni su una serie di immagini e vedo se qualcosa spicca fuori, se c’è un momento “eureka”, e questo può dare inizio a tutta una nuova sequenza. Mi piace l’associazione con il collage: frammenti trovati di immagini che girano intorno finché in qualche modo si uniscono in un accordo perfetto, come in un collage di John Stezaker.
Un altro aspetto formale che colpisce nei tuoi film è il senso dell’inquadratura, che sembrerebbe così istintivo. Puoi parlarmi di come si è formato, di qualche riferimento cinematografico o più in generale visivo che è stato importante per la formazione del tuo sguardo?
Quando ho cominciato a fare film a vent’anni non avevo molta fiducia in me, così era molto probabile che ogni inquadratura fosse rubata a Borowczyk, Franju, Dreyer e altri che pensavo di dover emulare. Dopo aver passato molti anni a realizzare in questo modo il mio primo film 16mm (The Joy of Walking, che raramente si vede in giro), mi sono reso conto di quanto fosse paralizzante e decisi che non avrei mai più disegnato uno storyboard. Da allora decido cosa inquadrare andando in giro con una cinepresa e tento di tenere la mente lontana dai riferimenti, anche se ovviamente sono tutti lì, da qualche parte nella memoria – ma così non m’importa se dopo guardo un’inquadratura e ci trovo qualcosa di familiare. Cambia anche da film a film – con Sack Barrow penso fossi più consapevole del formato 4:3 e uno sguardo da teleobiettivo di certi film cechi degli anni sessanta, mentre per Two Years at Sea avevo probabilmente in mente alcuni film di Yoshishige Yoshida, perché avevo visto di recente i film che fece con lo scope bianco e nero, e lì usa l’inquadratura in modo radicale, con oggetti collocati ai bordi e vaste aree di una sola tonalità, ma le sue sono più stilizzate. Ho guardato molti film, e tutto finisce per mescolarsi – penso che leggere romanzi costituisca una fonte di immagini più di qualsiasi altra cosa.
Il tuo lavoro sembra collocarsi su un margine sottile che sta tra l’osservazione e la messinscena di una performance: si può dire che questo secondo aspetto performativo, e la relazione che stabilisci con i soggetti da te filmati, è cresciuta di importanza, almeno da Ah, Liberty! fino a Two Years at Sea?
Ah, Liberty! è stato proprio il film che ha dato inizio a tutto questo. Prima di allora avevo evitato di inserire la performance nei miei film, e il modo in cui essa si è presentata, con i bambini di quel film, è stato molto naturale e aveva senso per me. Ho sempre percepito i miei film come osservativi, e ancora lo sono – per lo meno l’inizio, il periodo che precede le riprese è dedicato all’osservazione, ma non bisogna confondere questo aspetto con l’attualità o i fatti. Così, quando ho pensato di dirigere un po’ di più i bambini, non mi è sembrato in disaccordo con i film che avevo fatto fino ad allora. Il film che ha sviluppato con più completezza questa direzione è stato Slow Action, nella cui quarta e ultima sezione tutte le persone sono in costume, recitando il loro ruolo in quello che vorrebbe essere una sorta di film etnografico del futuro. Con Two Years at Sea le cose si complicano, perché siamo da Jake, che ha vissuto lì per trent’anni e conduce una vita molto simile a quella che vediamo nel film, ma io ho deliberatamente escluso molti aspetti che fanno parte della sua vera vita, mentre ho incluso cose che normalmente non accadrebbero, quindi diventa una finzione, che però non è cosi lontana dalla realtà che egli vive. Fin dall’inizio ho parlato con Jake del fatto che questo film sarebbe stato una versione calcata di alcuni aspetti della sua vita e non un ritratto accurato, ed è stato felice di collaborare in questo senso. Mi sento di sviluppare ulteriormente questo aspetto performativo, cosa che stiamo già facendo con Ben in A Spell e continuerò a fare nel prossimo film a cui sto lavorando, che sarà più vicino ad un’opera di finzione a tutti gli effetti.
La tua prima esperienza con un lungometraggio ha cambiato il tuo approccio alla ripresa e al montaggio? Ha influenzato il modo di considerare la costruzione del film nel suo complesso?
Tutto sommato non è cambiato granché, con Two Years at Sea ho mantenuto più o meno lo stesso approccio che ho avuto per molti film più brevi – e questi film hanno richiesto lo stesso tempo di lavorazione, se non addirittura di più, come nel caso di Slow Action. Con Two Years la durata ha presentato alcuni problemi in fase di montaggio e il modo in cui è strutturato in capitoli senza dubbio si ricollega al fatto che per molto tempo ho realizzato film di durata minore. Anche A Spell è diviso in capitoli, ma soltanto tre – il prossimo potrebbe essere in due sezioni: diciamo che mi sto avvicinando verso la realizzazione di un film che non abbia queste suddivisioni.
In altri lavori recenti hai utilizzato e interpretato delle forme consolidate per costruire e organizzare il tuo materiale: il travelogue (o il diario di viaggio, se preferisici) in I Know Where I’m Going, l’enciclopedia in Slow Action. Ci sono altre forme o generi con cui vorresti sperimentare in questo senso?
Entrambi quei film sono anche fortemente influenzati dalla fantascienza, un aspetto che porterò avanti in altri film. Un altro genere con cui mi interesserebbe fare qualcosa è il “dietro le quinte”, sullo stile di quei film che giocano con l’apparato cinematografico, ma il mio sarebbe più simile a un raduno hippy nel deserto, con in mente il gruppo di Zanzibar Films e a Paul Bowles. Poi ci sarebbero anche una novella mistery di Nathaniel Hawtorne e altri film sulle isole…
Parliamo di pellicola: ricordo quando, alla presentazione di Two Years at Sea all’ultimo festival di Venezia, hai parlato dell’importanza del differimento intrinseco al processo filmico, l’intervallo di tempo che intercorre tra riprese, sviluppo e montaggio. Puoi dirmi come ti applichi in questi diversi momenti e perché questo intervallo è così importante?
Questo ci riporta a quanto dicevo sull’importanza di separare il fenomeno della ripresa, essere in un luogo, farne esperienza e reagire ad esso, e il montaggio, che è un processo molto diverso, dove si tratta soprattutto di star seduti a riflettere. Quello che mi sembra importante è non essere costantemente consapevole di quello che ho appena filmato, in modo che non solo ci sia un elemento di mistero, ma si conservi un margine alla casualità. Così quando arrivo al montaggio ci sono un sacco di sorprese, ovviamente alcune sono spiacevoli, ma altre sono proprio quelle che mettono in movimento il lavoro di montaggio. Quello che davvero mi chiedo, se e quando comincerò a girare in video, è se sarò capace di aspettare per vedere quello che ho appena fatto.
Quando hai saputo che la produzione della pellicola 16mm Kodak Plus X sarebbe stata interrotta te ne sei accaparrato il più possibile per girare Two Years at Sea, che in questo modo è diventato anche una sorta di elegia a quel formato. Come ti rapporti al problema dell’obsolescenza dei materiali, una questione che negli ultimi anni ha assunto sempre più rilevanza nella pratica artistica? Come figura nel tuo lavoro? Quali possibilità e quali limiti presenta il lavoro con materiali obsolescenti? Trovi in questo una funzione critica, un luogo di resistenza o che altro?
È strano, perché ho sempre odiato prendere parte al dibattito “pellicola VS. video”, lo trovo noioso. Ho sempre pensato fosse una gran cosa che ci siano diverse scelte disponibili per i filmmaker, che possano il usare il medium che meglio si adatta al lavoro che stanno facendo. Così è successo che cominciassi ad usare la pellicola e ho continuato a farlo perché penso si accordi con i film che realizzo e non ho ancora trovato una buona ragione per passare al digitale (anche se in montaggio uso esclusivamente il digitale). Ma ora che la pellicola sembra essere sull’orlo della sparizione, mi sento più irremovibile nella determinazione a usarla fino a quando sarà possibile. Mi sento parte di quella che mi sembra una forma di resistenza alle multinazionali che impongono quali materiali e mezzi debbano usare gli artisti e i filmmaker, cosa che non dovrebbe assolutamente accadere.