C’è chi lavora per vivere e chi vive per lavorare. Nell’ultima opera di Niccol, le persone non hanno scelta; in un mondo in cui il tempo è letteralmente denaro ogni minuto di lavoro si trasforma in uno di vita. Nel paradigma ideato dal creatore di Gattaca e dallo sceneggiatore di The Thruman Show l’unità di scambio è il tempo: si lavora per acquisirlo e lo si utilizza per pagare ogni bene di consumo. Dopo i 25 anni, quando per ragioni sconosciute l’orologio biologico delle perone si blocca, resta solo un anno di vita, nonostante l’invecchiamento fisico non progredisca ulteriormente.
Proclamatosi come film di fantascienza, In Time non convince del tutto. Identificando letteralmente il tempo con il denaro, il regista è obbligato a trattare i due soggetti come una “mission impossibile”, trasposta in una corsa contro il tempo per scardinare l’ordine oligarchico governato dai magnati dalla vita eterna ma non immortali. Da una parte i poveri che campano alla giornata nel ghetto giorno (Day-ton), contrapposti alla gated community di New Greenwich (un nuovo parallelo?), in cui tutto è lento, quasi immobile. Personaggi eternamente giovani passano la loro vita a gestire il proprio patrimonio temporale e guadagnando sugli interessi esorbitanti maturati da mutui accesi da chi di tempo non ne ha. Un manipolo di guardiani del tempo, i “timekeepers”, sottopagati e poco motivati cercano di riportare le cose alla normalità dopo che il Robin Hood di Justin Timberlake, erede di una famiglia di marxisti, rapisce e coinvolge la bella Amanda Seyfried, figlia di uno dei più grandi magnati delle banche del tempo, in una folle corsa a due (in stile The Island) di ridistribuzione della ricchezza.
Parenti (molto) lontani dei Mickey e Mallory di Natural Born Killers, i due attraversano una L.A. trasformata per l’occasione in quadretto romantico dal capo operatore dei fratelli Coen, Roger Deakins. Nonostante qualche bella sequenza, e l’idea azzeccata di mostrare intenti alla corsa solo i poveri, perché non hanno tempo, Niccol getta un occasione per andare in profondità ad un soggetto affascinante e multiforme come la confusione delle età generata dall’aspetto giovanile di tutti i personaggi, maldestramente esaurita in uno sketch in cui il trio zia/madre/figlia Weis si presentano a Will Salas nella loro efebica bellezza dallo sguardo mostruosamente vuoto.
Ecco come un sotto prodotto di Philip Dick, con personaggi talvolta caricaturali e dialoghi impietosi, rimane imprigionato in un’idea buona sulla carta che non trova una trasposizione degna di nota, risolvendosi in un sexy thriller per militanti Occupy Wall Street un po’ glamour. Un’occasione fallita anche al botteghino, che colleziona, dopo il flop di The Lord of War una tiepida risposta di pubblico (34 milioni di incassi negli USA) a fronte dei 40 milioni costati per produrlo.
In Time, regia di Andrew Niccol, USA 2011, 109′