Nel dibattito che si sta svolgendo, con articoli e lettere, su Cinema Nuovo, intorno al problema della “destalinizzazione” e a quello dei rapporti tra critica e pubblico, mi pare che siano mancate sinora proprio le voci dei critici che più direttamente invece vengono chiamati in causa: la voce dei critici marxisti e comunisti. Ed è il desiderio di chiarire certe posizioni a indurmi oggi a rompere un silenzio che rischia di essere interpretato come incapacità ad adeguarsi a una nuova situazione. D’altra parte otto anni trascorsi come critico cinematografico di un quotidiano comunista mi pare che possano rendere la mia esperienza rappresentativa anche delle esperienze di altri colleghi.
Sono passati ormai nove mesi dal XX Congresso del PCUS che in modo così clamoroso e sotto molti aspetti drammatico ha aperto di fronte a comunisti e marxisti di tutto il mondo un nuovo periodo. Il silenzio da parte di tutti noi, che ci siamo sentiti toccati da gravi dubbi e incertezze, è stato indubbiamente doveroso. Il minimo che si può chiedere a chi ha commesso, nella massima buona fede errori, è di riflettere profondamente e riesumare le proprie responsabilità: di fare insomma quella “autocritica”, di cui molto si parla ma che raramente è compiuta con sincerità.
La condanna del culto della personalità, la denuncia degli “errori” di Stalin hanno portato con sé, come conseguenza più immediata e inevitabile, la condanna di quei film che nel passato avevano esaltato la figura di Stalin e che tanto avevano contribuito a crearne e rafforzarne il “culto”. La condanna di questi film da parte della Pravda, del giornale cioè che eravamo abituati a considerare come una guida sicura, se non infallibile, ha creato in me, e penso in molti dei miei colleghi, gravi problemi di coscienza. E mi pare necessario ora, visto che nessuno di noi lo ha fatto chiaramente, onestamente riconoscere che abbiamo sbagliato, in parte in buona fede e in parte per pigrizia e per debolezza, quando abbiamo sostenuto e lodato con aggettivi esageratamente adulatori – indegni del linguaggio di un vero marxista, di un vero comunista – opere gonfie di retorica come Il giuramento, La canzone della terra siberiana, I cosacchi del Kuban, o La caduta di Berlino. Opere che lasciavano invece profondamente perplessi i nostri compagni, militanti di base ai quali ci sforzavamo di spiegare, senza molta dialettica, ma con molto zelo, che ci trovavamo di fronte a non so quale età d’oro del cinema sovietico. La censura con la sua ridicola pregiudiziale antisovietica ha stupidamente proibito la proiezione di La caduta di Berlino, e ha evitato quindi, a me e ad alcuni colleghi, l’occasione per esaltare questo film sotto tanti aspetti deplorevole. Ma il fatto non mi esime dal riconoscere che, se la pellicola fosse stata regolarmente proiettata in Italia negli anni scorsi, avrei scritto con la massima convinzione tre o quattro (o cinque o forse più) colonne di piombo sulla terza pagina dell’Unità, indicandola come un’opera d’arte superiore, un capolavoro, un “monumentale affresco”, tipico esempio di una nuova cinematografia in marcia verso i più gloriosi destini.
Non è facile, credetemi, rileggere oggi certe frasi che si vorrebbe non aver scritto. Che cosa ha potuto, negli anni passati, a tal punto assopire le nostre facoltà critiche da farci gridare al capolavoro di fronte a opere mediocri prodotte nell’Unione Sovietica o nei paesi di democrazia popolare, e dimostrare invece una non sempre giustificata diffidenza nei confronti di qualsiasi film, anche se indubbiamente interessante, proveniente dagli studi di Hollywood, per noi già viziato dal marchio della fabbrica dei sogni del capitalismo? È una domanda a cui sarebbe facile, e in parte giusto, ma troppo comodo, rispondere dicendo che era colpa del mito di Stalin. Sarebbe troppo comodo addossare a uomini e situazioni lontane migliaia e migliaia di chilometri da noi le responsabilità della nostra colpevole rinuncia a pensare in modo onesto, sincero, indipendente.
È vero, e sarebbe inutilmente severo e duro negarlo, che molte considerazioni contingenti possono spiegare certi compromessi, certe accettazioni di giudizi altrui. Pensavamo allora che lo stalinismo, è vero, conteneva molte cose che nel profondo dell’animo ci ripugnavano, ma che si presentava come l’unica via per giungere a quell’ideale di giustizia sociale che rappresentava per noi il socialismo e senza il quale qualsiasi democratica libertà ci appare insufficiente e monca. Visto che il governo osteggiava il cinema sovietico pensavamo nostro dovere aiutarlo; e siccome il pubblico sveva una certa diffidenza nei suoi confronti, eravamo convinti di dover trasformare le nostre critiche in soffietti pubblicitari, tanto più inutili quanto più chiaramente reclamistici. Dimenticavamo che dire la verità è rivoluzionario, è il primo dovere di un comunista, perché dalla verità nulla ha da temere il marxismo. Incominciammo invece con lo scrivere una breve recensione positiva di qualche film veramente brutto e primitivo (magari L’uomo dai cinque volti) e continuammo con un bell’articolo in terza pagina per La canzone della terra siberiana e Un treno va in Oriente. Poi scrivemmo due o tre articoli accompagnati da molte fotografie, monopolizzando per intere settimane la terza pagina, quando si trattò di “lanciare” La giovane guardia o la riedizione de Il Giuramento.
Ma forse è inutile insistere su cose che purtroppo tutti sanno, anche se stentiamo ad ammetterle. Potremmo ancora dire che nei film sovietici vedevamo spesse volte, o credevamo di vedere, lo specchio di una società diversa, tanto diversa dalla nostra, e che ci attirava col fascino della sua retorica. Sì, perché scambiavamo a volte la retorica per ingenuità primitiva e semplicità esemplare. Ma anche le giustificazioni cercate su un piano politico o sociale non valgono a diminuire le nostre responsabilità per aver mescolato a un discorso politico frasi e giudizi che volevano essere di critica estetica, artistica. Sarebbe ingiusto d’altra parte dimenticare che abbiamo anche difeso i film buoni, i film belli e interessanti su un piano artistico, come Mičurin o Il ritorno di Vasilij Bortnikov. Ma anche in questi casi, quando ci rendevamo conto di essere davvero di fronte a opere di valore? Quanto scrivemmo per incosciente abitudine, e quanto per autentica commozione? Non possiamo dunque fare a meno di dichiararci decisi a evitare di ricadere in errori simili nel futuro e chiedere a chi ci ha spesso con ragione criticati di voler credere ora alla nostra sincerità.
Purtroppo le conseguenze del nostro atteggiamento restano. Non tanto per quegli scritti che la labilità stessa del linguaggio cancella, ma per l’azione che, dettata dalla atmosfera creata dallo stalinismo anche tra i marxisti italiani, non abbiamo compiuto per aiutare il nostro cinema. Non sembri un paradosso. Riconosciamo che, mentre tutti noi, critici comunisti, registi comunisti, uomini di cinema vicini al partito comunista, andavamo gridando a tutti i venti le parole d’ordine “difesa del cinema italiano” non ne eravamo certo i migliori paladini. Perché mentre sostenevamo che solo nella realtà il cinema italiano poteva trovare l’ispirazione per seguire la via dell’arte, gli imponevamo i nostri schemi, una nostra visione preconcetta e proprio per questo nemica della realtà.
Per anni ci siamo preoccupati di mettere in guardia tutti quanti contro il pericolo dell’ingerenza cattolica e clericale nel nostro cinema, ma intanto non riuscivamo a individuare gli aspetti più veri e tipici della produzione nazionale, e a indicarli agli artisti come fonte della loro ispirazione. Difendevamo a parole la libertà dell’artista, ma eravamo poi pronti a imbrigliarne la fantasia creatrice proponendogli e imponendogli rigidi schemi che ben poco avevano del marxismo a cui si richiamavano. Invece di integrarci nel mondo del cinema siamo arrivati a creare noi un nostro mondo del cinema; ne è stato un esempio tipico quello della cooperativa costituita per realizzare un film impostato strettamente sull’ideologia comunista. Ne è risultato Achtung! Banditi! che, sforzandosi di seguire rigidamente parole d’ordine e orientamenti consacrati nel catechismo dell’estetica e della storiografia marxista non riuscì certamente a rendere la vitalità e la ricchezza di un’esperienza veramente nazionale come la Resistenza.
Ci siamo dimenticati che quando il partito comunista s’era inserito nella vita nazionale come una forza profondamente viva e aveva saputo raggruppare intorno a sé e attorno alla sua lotta le forze più diverse creando quell’unità nazionale che sola può costituire la base di una reale democrazia, e cioè durante la Resistenza, non c’era stato bisogno di un regista comunista, ma era stato, tra mille difficoltà e senza mezzi, un regista cattolico, Rossellini, a dipingere sullo schermo il militante comunista come un autentico eroe nazionale. Per anni abbiamo seguito una via dettata essenzialmente da esigenze tattiche di propaganda. Abbiamo cercato di appropriarci dei film prodotti dalle forze ancora sane e coraggiose della borghesia per farli passare con la nostra etichetta. Abbiamo voluto fare di Ladri di biciclette o Miracolo a Milano le bandiere della nostra propaganda; e invece di creare attorno a certi artisti un effettivo fronte di unità nazionale abbiamo finito con il lasciarli isolati, facendo il gioco degli avversari.
Abbiamo cercato poi, visto il fallimento della nostra azione, di gettare quasi ogni colpa su un elemento esterno, estraneo al dramma artistico del nostro cinema: la censura. Abbiamo ingigantito la onnipotenza di questo spauracchio – purtroppo reale e deleterio, ma che non è mai stato in grado di chiudere la bocca a chi vuole davvero dire la verità – come han dimostrato Ossessione e I bambini ci guardano durante la guerra in Italia e Gli egoisti e Calle Mayor di Bardem oggi in Spagna. E abbiamo finito con l’imporre a noi stessi limiti e divieti maggiori di quelli che avrebbero imposto gli avversari. E lo dimostrano le limitate ingerenze della censura in certi film che si sarebbero creduti irrealizzabili, ma che si che si avuto ugualmente il coraggio di tentare: un esempio recentissimo è Giovanna, dove viene viene portata sullo schermo l’occupazione di una fabbrica da parte di operaie tessili, argomento che pensavamo tabù e dove invece la censura ha richiesto tagli di poco conto.
A esempio dello schematismo che ha dominato per tanto tempo i nostri artisti vorrei ricordare una conversazione avuta quest’estate con un nostro giovane e promettente regista. A un certo punto ci mettemmo a parlare della possibilità di fare un film centrato sui problemi della classe operaia. Sostenevo che se si fosse proposta una vicenda ambientata in una grande fabbrica, ma non impostata esclusivamente sull’operaio comunista, probabilmente la censura non si sarebbe opposta. La reazione del regista fu sorprendentemente settaria, schematica e significativa. Se io dovessi, mi disse, fare un film sulla classe operaia non potrei fare a meno di far vedere una sezione di partito, una riunione di cellula, la parte che l’operaio comunista ha nella preparazione di uno sciopero, in modo da far risaltare in modo inequivocabile l’insostituibile funzione del partito comunista come guida della classe operaia e come attuale difensore estremo dei diritti dei lavoratori.
Confesso di essere rimasto un po’ perplesso, e sconcertato, e dopo aver tentato qualche suggerimento in senso contrario, lasciai cadere l’argomento. Questa presa di posizione di un regista dalle innegabili qualità, credo possa spiegarci le ragioni della crisi e della mancata realizzazione di qualsiasi film – a eccezione di Napoletani a Milano che lo faceva in modo del tutto esterno – che abbia affrontato, non dico i problemi, ma almeno l’ambiente della classe operaia.
Evidentemente il regista con cui parlavo non conosceva affatto le condizioni attuali, la vita di oggi nelle grandi fabbriche, ignorava nel modo più assoluto i termini della lotta che vi si sta svolgendo. Mi ripeteva infatti i soliti concetti le solite frasi fatte, che in modo generico e astratto sono verissime, ma nella concreta realtà esigono un attento riesame. Nessuno vuol negare infatti che la politica del Partito comunista dovrebbe essere quella che meglio difende gli interessi delle masse operaie, ma è anche vero che negli anni scorsi si sono compiuti, nella lotta condotta dai comunisti nelle fabbriche, non pochi errori per cui, anche sotto la pressione del padrone, larghi strati di lavoratori si sono allontanati dalla politica comunista. Non è certo una cosa di cui possiamo rallegrarci; tanto più che su questa triste realtà il padrone ha spietatamente cercato di inserire la sua azione per dividere e schiacciare la classe operaia. Ma è evidente che oggi si potrebbe benissimo fare un film sugli operai di una fabbrica senza far vedere uno sciopero e senza far vedere operai e organizzatori sindacali comunisti. E senza per questo tradire la realtà. Anzi sarebbe il film suggerito dal regista a tradire la realtà, o perlomeno a non riflettere un aspetto «tipico» della realtà.
Ci sarebbe da parlare ancora per pagine e pagine di questi problemi, bisognerebbe esaminare quali sono le nuove condizioni e aspirazioni degli operai, quali problemi andranno affrontati l’automazione, quali mutamenti stanno verificandosi nel cuore del nostro paese mentre la maggioranza della nazione e soprattutto il mondo della cultura non se ne rende conto, li ignora. È un argomento che in altra occasione si potrà trattare più ampiamente. Mi basta qui averne accennato come esempio del distacco dei registi , anche di quei registi che si richiamano all’ideologia marxista, dalla realtà della nazione. In tali condizioni è chiaro che il cinema nostro era condannato a indebolirsi e diventare facile preda della speculazione, della concorrenza straniera, delle esigenze industriali.
Da un lato gli artisti più vivi, rappresentanti della classe borghese hanno finito col trovarsi isolati in seguito a un processo che esigerebbe un accurato studio. D’altra parte la mancanza di una solida industria cinematografica non ha permesso alla parte più forte della borghesia di esprimere la propria vitalità attraverso essa, legandovi certi artisti, come è avvenuto per esempio negli Stati Uniti. Coloro infine che si sono schierati al fianco delle classi nuove, delle classi lavoratrici, non sono riusciti a trovare un’ispirazione sufficientemente vitale, sono caduti nelle trappole della realtà pre-organizzata. Mentre intanto la maggior parte dei critici comunisti e marxisti aumentava la confusione, agitando parole d’ordine sorpassate o rispolverando quel problema del pubblico che viene fuori ogni qual volta la società non riesce a esprimersi pienamente sul piano dell’arte.
Ma se la situazione appare così nera oggi, non si può dire che il futuro sia altrettanto chiuso. Anzi, già si intravedono le possibilità di uno sviluppo positivo. L’abbandono delle formule passate – un abbandono sincero e totale – il ritorno all’indagine veramente marxista della realtà, la libera attività di ricerca, la negazione di qualsiasi retorica, possono aprire la porta a una nuova fioritura della cultura e del cinema. La libertà è la condizione prima della creazione artistica. Ma non solo la libertà dalla censura, la libertà dalle imposizioni del produttore; soprattutto la libertà di pensare senza schemi, di rivedere continuamente le proprie opinioni, le proprie convinzioni confrontandole con la infinita varietà e ricchezza della vita. La libertà che viene dall’avere la coscienza sicura, dall’aver rifiutato ogni compromesso.
Si tratta di mettersi su questa strada nuova senza pretendere di avere in tasca le formulette buone per classificarvi tutti i film che vengono da un determinato punto cardinale con una precisa etichetta, dopo aver cercato di liberarsi dalle debolezze del passato con piena coscienza e senza cercare tortuose giustificazioni. C’è da riprendere un lavoro iniziato e subito interrotto. Solo così la cultura marxista saprà meglio elaborare i suoi principi estetici, saprà meglio collaborare alle esigenze di rinnovamento urgente per la nostra cultura. E se questa azione sarà accompagnata da un’analoga azione di maturazione delle forze politiche potremo forse rivedere film di un cattolico che esalta un eroe comunista e film di un comunista che descrive le lotte di un operaio cattolico.
(Cinema Nuovo, anno V, n. 95, 1° ottobre 1956)