Forse un giorno – nel 2046, poniamo – per ripercorrere la storia del cinema non verrà più utilizzato un libro ma un film. Archiviati i voluminosi tomi del Bordwell/Thompson, gli studenti seguiranno in streaming le 15 puntate da un’ora ciascuna di The Story of Film – An Odissey di Mark Cousins. E sapranno tutto quello che c’è da sapere. Sapranno del neorealismo italiano e dell’espressionismo tedesco, conosceranno John Cassavetes e Theodore Dreyer, Sternberg e Sokurov, i capolavori del cinema russo e i classici hollywoodiani, i problemi di censura di Oshima e la vita della più grande attrice cinese mai vissuta, Ruan Lingyu, la “Garbo di Shanghai”. E soprattutto condivideranno l’entusiasmo di un viaggio straordinario nella galassia di immagini in perenne movimento, lanciate nell’orbita dell’immaginario nel corso di oltre cent’anni di cinema.
Condensare in quindici ore la storia del film è un’impresa non da poco, considerando che gli intenti di Cousins non sono semplicemente quelli di fornire un compendio per sequenze celebri: si tratta di raccontare il lungo e geograficamente diffuso processo di evoluzione di un mezzo al contempo tecnico e artistico, frutto dell’impegno di migliaia di persone (registi, scenografi, direttori della fotografia, montatori, sceneggiatori, attori, compositori) al lavoro ai quattro angoli del globo; si tratta di raccontare le storie di queste persone e allo stesso tempo le storie dei luoghi che li hanno visti all’opera e degli strumenti di cui si sono serviti, contestualizzate nell’epoca che ha prodotto i loro film; si tratta di creare una rete fitta e stratificata di connessioni e associazioni, a volte evidenti (Sirk/Fassbinder), a volte imprevedibili e azzardate (Bresson/Warhol), che conducono da un autore a un altro (da Walkabaout di Roeg a Picnic a Hanging Rock di Weir, da Bela Tarr a Gus Van Sant, da Antonioni a Zidane), da una cinematografia a un’altra.
The Story of Film è un lungo viaggio che conduce lo spettatore dalle origini del cinematografo alle sale dei multiplex, con un entusiasmo e una fiducia tali da tenere a distanza qualunque tipo di nostalgia; per mostrare come, al di là del gigantesco meccanismo economico che sorregge la produzione e la diffusione del film, la sua arte e specificità risiedano nel lavoro creativo di uomini coraggiosi e visionari, impegnati in un costante processo di innovazione tecnica e formale. Proprio il fatto di scegliere il concetto di innovazione come chiave di lettura e analisi della storia del cinema consente a Cousins di trovare un punto di vista privilegiato e il tracciato di un percorso progressivo che altrimenti avrebbe rischiato di disperdersi in mille rivoli. Il viaggio è comunque personale e sarebbe impensabile che, al termine delle quindici ore, non fossero riscontrabili lacune, imperdonabili assenze e qualche superficialità. Ma quante, realmente, ce ne sono? E come sarebbe stato possibile fare di meglio con lo stesso tempo a disposizione?
Per comprendere lo sforzo organizzativo imposto dall’opera può essere utile ripercorrere il corso di una delle puntate più interessanti della serie, l’ottava, dedicata agli anni tra il 1965 e il 1969. Si parte da Cenere e diamanti di Wajda e da una delle sue scene più belle: quella con i due protagonisti che parlano all’interno della chiesa in rovina, con la macchina da presa che segue elegantemente i loro movimenti e si arresta davanti a un crocefisso rovesciato che penzola nel vuoto davanti a loro. Cousins introduce il tema politico che porterà avanti nel corso della puntata, occupandosi della cinematografia dell’est Europa. Si fa in tempo a vedere un estratto del corto di Polanski Due uomini e un armadio e del suo esordio Il coltello nell’acqua prima di passare alla Repubblica ceca. Quanto a lacune, potremmo avanzare dei dubbi rispetto all’esclusione di Jan Nemec o Frantisek Vlacil, ma non mancano Milos Forman e Vera Chytilova e, soprattutto, stupisce (positivamente) la scelta di prendere in esame lo straordinario corto animato di Jiří Trnka La mano, inquietante e ancora attuale metafora del potere repressivo. Poi il finale con lo sguardo in macchina di L’armata a cavallo di Jancsó. Tarkovskij: la passione dell’autore per il regista russo si condensa nel talento per la sintesi da parte di Cousins che riesce a racchiudere in una manciata di brevi sequenze (da Andrej Rubliov, Lo specchio, Stalker e Nostalghia) la forza visiva del regista, facendo sì che siano esplicative della sua poetica che “unisce il fisico e il metafisico” e “ricerca il trascendente nel mondo materiale” verso la “rivelazione dell’assoluto”. Non da meno l’analisi di un altro gigante (decisamente più trascurato anche in ambito cinefilo ma altrettanto importante): di Paradjanov basterebbero le immagini tratte dal capolavoro Il colore del melograno per convincere qualunque appassionato a gettarsi alla disperata ricerca delle sue opere. Si potrebbe andare avanti a lungo e riportare i sorprendenti passaggi che conducono da Oshima e Imamura a The House Is Black dell’iraniana Forough Farrokhzad, e poi dall’indiano Mani Kaul al senegalese Ousmane Sembène, e da lì a Richard Lester, per poi attraversare l’oceano e accennare all’influenza di film come Primary di Robert Drew e Ombre di Cassavetes sul nuovo cinema americano a venire, infine chiudere sul finale senza speranza del poco visto Medium Cool, esordio alla regia del direttore della fotografia Haskell Wexler.
Nella sua estrema ricchezza di spunti e in virtù della passione che lo muove, The Story of Film suscita l’interesse tanto dell’appassionato di cinema che dello studioso, del cinefilo incallito e del semplice curioso. E quando si arriva agli anni ’90 e al 2000, i più scettici potrebbero aspettarsi capitoli conclusivi dal fiato corto e dall’immaginario impoverito ma non è così: per Cousins si tratta di decenni ricchi di talento e spinta innovativa al pari dei precedenti, perché nella visione globale del cinema – l’unica valida oggi per chiunque intenda non assimilare i propri parametri di analisi e giudizio a quelli imposti da un’industria e da un mercato sempre più invasivi – il cinema muta pelle in continuazione e si rigenera in luoghi sempre nuovi e sempre diversi, da geni che passano in eredità da un regista all’altro, immagini che sembrano transitare di film in film – si veda il vertiginoso passaggio che porta da Il fuggiasco di Carol Reed a Taxi Driver di Scorsese via Due o tre cose che so di lei di Godard per mezzo del semplice accostamento visivo di singole, brevissime sequenze – e invenzioni visive che si impongono per forza propria, ogni volta come se nessun altro film fosse mai stato fatto prima.
Come sarà il cinema del futuro e quale sarà il suo ruolo? si chiede Cousins nell’ultima puntata, un ponte lanciato nel vuoto di epoche ancora da scoprire. E, dopo quindici ore di tour de force, il congedo è giustamente affidato a un Sokurov estenuato e quasi trasfigurato dall’intensità dello sforzo che sussurra il ciak finale dell’Arca russa, un viaggio, anch’esso unico e irripetibile, dentro la Storia nel cinema.