Ci sono registi che rappresentano al meglio la temperie che stiamo attraversando, la surreale commistione di nostalgia per un passato a volte nemmeno conosciuto e di entusiasmo per le multiformi potenzialità espressive che il cinema sta assumendo in questi anni. La transizione dall’analogico al digitale è vissuta da alcuni con terrore e rimpianto, da altri con gioia e trepidazione: il filippino Raya Martin si impone in virtù di una personalissima visione all’interno di questa temperie, amando la pellicola e il video allo stesso modo e servendosene a seconda dei casi, in un percorso antiautoriale che lo pone ai vertici della cinematografia internazionale.
Sperimentale negli intenti e innovativo nei risultati, Martin si è dimostrato abilissimo nel fondere racconto individuale e memoria collettiva, rielaborando come in un sogno un cinema antico che non è mai esistito (quello filippino delle origini), per rintracciare lo spirito atavico di un popolo tra i fantasmi del colonialismo. A Short Film About the Indio Nacional e Independencia sono i primi due straordinari capitoli di una trilogia che deve ancora trovare compimento, opere che – a differenza di altre ben più furbe ed acclamate – rielaborano il linguaggio del cinema muto in virtù di una necessità forte, portandolo al presente nell’unico modo realmente accettabile. Ma chi ha visto gli altri film del regista – l’inquietante Autohystorya, il lunghissimo Now Showing, episodio iniziale di una trilogia sul cinema proseguita da Next Attraction, e il folle Buenas Noches, España presentato all’ultimo festival di Locarno – sa che rifugge l’idea di fossilizzarsi in una determinata forma e l’etichetta di “quello che fa i finti film muti filippini” gli sta strettissima.
Giovanissimo (è nato a Manila nel 1984), Raya Martin ha esordito appena ventenne con il documentario The Island at the End of the World, primo tassello di un tragitto artistico imprevedibile e sorprendente che ne fa uno dei cineasti più interessanti del panorama mondiale.
Come è nata la tua passione per il cinema? Hai sempre vissuto sempre nelle Filippine o hai avuto modo di viaggiare, da ragazzo?
No, ho cominciato a viaggiare solo quando i miei film sono stati invitati ai festival. Prima non avevo idea che avrei fatto film come questi e che mi avrebbero permesso di girare il mondo. Volevo fare cinema, questo sì, ed ero un grande appassionato di horror – John Carpenter e Wes Craven, ad esempio – ma a scuola, grazie a un professore che ci passava le sue videocassette, ho scoperto tutta quella roba artistica, Tarkovskij e gli altri, Dovženko, Kalatov e Sokurov. Allora ho cercato di realizzare i miei primi corti sulla scia dei loro film, anche se a rivederli adesso mi sembra che siano molto distanti da ciò che tentavo di fare. Poi è arrivato il momento della tesi e ho girato Indio Nacional, ma solo 30 minuti, perché non poteva essere più lungo. Ho girato ugualmente un lungometraggio e ho dato a loro solo i 30 minuti che servivano per la tesi.
È per questo che si intitola A Short Film About the Indio Nacional anche se è un lungometraggio?
No, è solo che mi piaceva il titolo. E non ha niente a che vedere con Kieslowski (ride). Scherzi a parte, si tratta di un film “breve” se condsideriamo che tratta di quasi 300 anni di storia filippina… Subito dopo ho avuto una residenza a Parigi e il film è stato invitato a diversi festival. Tutto quest’improvviso interesse nei miei confronti è stato un problema, alle spalle avevo solo un documentario (The Island at the End of the World, 2005 ndr) e sentivo molto la pressione su di me e la maniera più sicura per proseguire sarebbe stata quella di girare una coproduzione d’autore ma io ho deciso di perseguire un’altra strada e ho realizzato Autohystoria (2007). E alla gente è piaciuto! Sono rimasto molto sorpreso e mi sono detto “allora posso fare tutto quello che voglio!”. Così, dentro di me, ho cominciato a sviluppare quest’idea di “antiautorialità”, perché tutti mi identificavano con quello che faceva i “film muti” sulla storia delle Filippine e blablabla… Cerco di essere un antiautore anche se non so bene cosa significa e in fondo forse non vuol dire niente ed è solo un altro modo di essere autore… Mi sono dato una sorta di manifesto, però, in base al quale avrei cercato di fare ogni volta qualcosa di diverso. Vale a dire che il mio stile sarebbe dovuto cambiare da un film all’altro e soprattutto tra quello precedente e il successivo. Così quando prima ho fatto Independencia (2009), che era piuttosto comprensibile, abbordabile, e poi questo (Buenas Noches, España, 2011), il mio produttore mi ha detto “sei pazzo? vuoi andare a Locarno con un film sperimentale che non ho nemmeno visto?”. Ha cercato di caricarmi di pressione e di farmi capire che c’era molta attesa sul mio nuovo film, ma ormai la cosa non mi preoccupa più.
Sei cresciuto in una famiglia colta?
Sì, perché mio padre era un editore. Pubblicava soprattutto letteratura per ragazzi e aveva una forte passione per lo storytelling che ho ereditato da lui. Giravano sempre per casa molti scrittori e io non capivo niente di quello di cui parlavano, ero solo un ragazzo molto grasso e pieno di insicurezze… È così che ho cominciato a interessarmi al cinema e a comprare libri e film su Internet. Haxan (La stregoneria attraverso i secoli) è stato uno dei primi che ho acquistato su Amazon. Madre e figlio di Sokurov è un altro film che non vedevo l’ora di avere. Poi mi sono appassionato al cinema sperimentale, dopo aver letto Amos Vogel e P. Adams Sitney, e nella scuola di cinema non sapevano nulla di questa tradizione, avevo un professore che considerava oscuro un regista come Kiarostami! Non so chi ha detto che la cinefilia ucciderà il cinema… Ma eravamo un gruppo di amici e uno in particolare, Alexis, viaggiava molto e portava a casa un sacco di dvd. È grazie a lui che ho visto le Histoire(s) di Godard.
Vuoi parlarci di questo gruppo di amici?
Non si trattava di un un gruppo particolarmente esclusivo, ma condividevamo lo stesso spirito. C’erano anche alcuni registi… Lav Diaz, Khavn de la Cruz, John Torres, ma non parlavamo molto di film quando eravamo fuori… Io ero l’unico gay del gruppo e loro non facevano altro che parlare di ragazze… ma poi andavamo a casa di qualcuno, guardavamo tantissimi film, e Khavn girava già molto e ci parlava di personaggi che incontrava ai festival, come Kitano… Era qualcosa che vivevamo con estrema naturalezza, un periodo molto fertile, in cui circolavano un sacco di idee.
Nel tuo corto Long Live Philippine Cinema! (2009) un gruppo di ragazzi uccide una famosa produttrice di cinema commerciale. Com’è la situazione del cinema nel tuo Paese? C’è una forte dominazione da parte di una forma spettacolare, esplicitamente commerciale?
Credo che la nostra situazione potrebbe essere paragonata a quella spagnola, da questo punto di vista, ma forse anche a quella italiana, con un sacco di commedie… Anche se da noi forse si realizzano più melodrammi e horror. Un tempo la produzione era vasta, nell’ordine di diverse centinaia di film all’anno, ma adesso a dominare il mercato, come da ogni altra parte, sono questi agglomerati di potere tra reti televisive e case di produzione cinematografiche. Il cinema indipendente si vede sempre meno, e quello che c’è non si differenzia granché da quello mainstream… Una situazione terribile. Credo che la stessa cosa si possa dire dell’Argentina. Ci penso spesso ma non so bene dove risieda il problema: c’è un momento in cui tutto sembra funzionare, improvvisamente si parla di una “new wave” della quale tutti vogliono fare parte e in men che non si dica non rimane più niente…
Ma raccontaci la storia dietro il film: chi rappresenta la protagonista che viene uccisa?
“Mother Lyly”, Lily Monteverde. È la più famosa produttrice di cinema commerciale nelle Filippine, con all’attivo migliaia di film, alcuni dei quali molto importanti, come quelli di Lino Brocka. Negli anni ’80 ha lavorato con grandi registi, ma era un’epoca molto diversa, si scommetteva su un giovane cineasta con i soldi guadagnati da altri dieci film di cassetta. Ho voluto girare Long Live perché sono molto compulsivo e anche se avevo pochissimi soldi in banca ho deciso di usarli tutti per finanziarlo. Non ha circolato molto, naturalmente… l’abbiamo fatto vedere nelle scuole, all’università, e ora si trova facilmente su youtube… Non credo che Mother Lily l’abbia mai visto. L’ho incontrata un paio di volte ma sembrava non ricordarsi mai di me. Una che incontra così tante persone forse non si ricorda mai di nessuno.
Immagino che sia più facile mostrare i tuoi film fuori dal tuo Paese…
Assolutamente sì. Un’audience è un’audience, non mi importa dove vengono visti i miei film. Nelle Filippine non abbiamo una grande scena sperimentale, al momento, in particolare nel campo delle avanguardie…
Ci sono registi le cui opere stanno viaggiano sul filo di una doppia destinazione: quella cinematografica e quella espositiva. Cosa ne pensi? Ti riconosci in questa categoria di filmmaker?
Non più di tanto. Ho avuto in mente sempre il cinema, fin dall’inizio. Quando ho girato Autohystoria, che dura novanta minuti ma è composto da appena una decina inquadrature, in molti mi hanno detto che lo si sarebbe potuto proiettare in uno spazio galleristico, e anche se sono consapevole delle dinamiche alla base della videoarte e vado spesso a vedere installazioni di questo tipo preferisco che i miei film vengano mostrati in sala, perché l’esperienza che se ne fa e il responso sono differenti. Forse si tratta solo di una questione romantica, ma vedere un film al cinema vuol dire sedere al buio e non alzarsi fino alla fine, implica una dedizione particolare nei confronti dell’opera che nelle gallerie non è possibile.
Parliamo del tuo ultimo film, Buenas noches, Espana.
Vi è piaciuto? Vorrei tanto che mi diciate cosa ne pensate, prima. Onestamente.
Diciamo che è stato molto sorprendente, non si sa mai cosa aspettarsi dai tuoi film. Abbiamo consigliato a diverse persone di assistere alla proiezione e al ternmine ci hanno detto “Bene. Ora ditemi di cosa parlava”.
(ride) Capisco. Posso dirvi che un regista italiano che conoscete sicuramente alla fine della proiezione mi ha detto “Complimenti. Molto bello, anche se non ho capito niente”. Ma va bene così. Non è facile spiegare un film come questo. Mi servo spesso del concetto percettivo legato all’uso delle droghe per spiegare i passaggi tra una scena e l’altra, il flusso di immagini che si viene a creare… e comunque non mi interessa che il film sia bello o meno. Mi interessa che possa aprire a nuove realtà e a nuove facoltà di comprensione di se stessi e di ciò che ci circonda. Certi film dovrebbero funzionare così, proprio come delle droghe.
Come hai incontrato i produttori spagnoli?
Alcuni li conoscevo dai festival, come Gonzalo de Pedra di Punto de Vista, e sapevo che sostenevano le mie opere, così siamo rimasti d’accordo che prima o poi avremmo fatto qualcosa insieme. Ci siamo rivisti a Madrid (o Barcellona) e ho scoperto che non solo è la città più divertente del mondo ma era come se ovunque aleggiassero fantasmi delle Filippine… Quando è arrivato il momento ci siamo rivisti e siamo andati a Bilbao e abbiamo girato il film in cinque giorni, con una piccola traccia che avevo scritto.
Conoscevi già il museo in cui hai girato?
No, ma sapevo che c’era l’opera di un pittore filippino, Juan Luna, ed ecco perché ho citato il Viaggio nella Luna di Méliès, ma non so se il rimando coglie, nel film. Volevo fare una sorta di remake acido del film di Méliès.
Come mai l’uso del super 8?
Non vedevo l’ora di utilizzarlo. È straordinario: ti permette la stessa libertà del video ma possiede l’imprevedibilità della pellicola. So che ormai circola sempre meno e mi dispiace che oggi nessuno lo usi più… Forse per la nostra generazione ha a che fare con una sorta di nostalgia e non capisco perché tutti facciano quelle schifezze fintamente vintage con il video e il digitale… Comunque credo fortemente che per ogni filmmaker il formato scelto per girare include il contenuto e il messaggio stesso del film. Almeno, per me è così: quando ragiono su un film da fare parto sempre dal formato che utilizzerò, consapevole che la scelta spesso è dettata da pure questioni di budget. Se utilizzerò il digitale sarà un certo tipo di film, perché non si può prescindere dalle caratteristiche che avrà l’immagine, e la stessa cosa vale per l’analogico. Si tratta di un buon modo di aggirare le restrizioni economiche imposte, oltre tutto!
Sei molto veloce a girare?
Ho girato Short Film in 5 giorni e Independencia in 15, in quel caso facendo avanti e indietro quotidianamente dall’appartamento di Lav, che mi ospitava perché viveva nei pressi dello studio. Devo dire che fare film è l’unica cosa che mi rende davvero felice. E forse anche l’uinico motivo per cui sono ancora vivo. Mi piace molto l’atmosfera che si viene a creare sui set. In Independencia avevamo una crew di 100 persone ed era bellissimo vedere l’impegno che ci mettevano tutti, convinti o meno che stessimo realizzando qualcosa di artistico…
Perché hai deciso di girarlo tutto in studio?
Per ricercare un’estetica simile a quella dei film muti, naturalmente. In origine il progetto doveva essere diverso: si trattava di girare in 16mm con tre soli attori, tre persone che vivono in montagna e vediamo crescere, ma poi ho pensato che sarebbe diventato un film alla Lav Diaz e non volevo che accadesse. Naturalmente girare in Studio è costato molto di più del previsto e i finanziatori del film pensavano che li stessi prendendo in giro perché ritenevano fosse una spesa inutile ricreare tutto in studio, con i grandi dipinti sullo sfondo, etc… Mi piace molto l’idea dello Studio come luogo fisico in cui viene girato il film, le scene sono lo Studio.
Ci interessa molto il lavoro che fai sull’immagine. In che modo recuperi l’eredità del cinema muto?
Il muto e l’attenzione allo stile dei grandi registi di quell’era vale per Independencia. Ma con Short Film
ho cercato di riprodurre piuttosto le vecchie cartoline e le foto
d’epoca, perché sono l’unica fonte ancora ampiamente disponibile. Per Independencia ho visto tutti i film che ho potuto di Murnau e in particolare Faust. Anche se molti mi hanno detto che ricordava il suo ultimo film, Tabù, che in realtà ho visto solo dopo.
Un’altra cosa che ci ha molto stupiti è il fatto che fai accompagnare Indio Nacional da un soundtrack ogni volta diverso…
Sì uso quello che è disponibile al momento. Dipende da quello che ha a disposizione il festival e da dove arriva la copia. Anche se un soundtrack originale esiste: quello della première a Rotterdam, con la musica di Khavn de la Cruz. Altrimenti porto un cd con vecchie musiche tradizionali e mettiamo quello. Altre volte i “Notturni” di Chopin, perché li ascoltavo mentre scrivevo il film li e in qualche modo hanno dettato il ritmo dell’opera. Mi piacerebbe molto che ognuno degli spettatori portasse il proprio iPhone e vedesse il film con una colonna sonora diversa, “personalizzata”.
Il film, con Independencia, fa parte di una trilogia che non hai ancora completato.
Sì, perché il film che dovrebbe completarla è troppo costoso. Mi piacerebbe utilizzare l’animazione… Vorrei fare un film che ricordi le cose di Hannah & Barbera… Dovete sapere che avevano uno Studio nelle Filippine e per questo motivo abbiamo bravissimi animatori. L’altro problema riguarda l’argomento del film, dal momento che parla dell’occupazione giapponese del nostro Paese. È un argomento delicato, perché i giapponesi stupravano molte donne e anche se si è trattato di un periodo breve (tre anni) ha lasciato molte tracce…
Nei tuoi film rielabori spesso il passato delle Filippine…
Si, è quello che dicono tutti i critici (ride). Non so, forse è davvero quello che faccio, ma non lo faccio consapevolmente, teorizzando al riguardo… Per alcuni registi è un buon modo di lavorare, ma non per me. Sicuramente, quando lavoravo a Independencia, ero conscio del fatto che avrei potuto risvegliare i fantasmi del colonialismo anche se era esattamente ciò che intendevo allontanare. C’è dell’ironia nel pensare che forse abbiamo bisogno proprio di loro per potercene distaccare una volta per tutte. Ad ogni modo, Independencia e Short Film rappresentano il desiderio di un cinema che non è mai esistito e chissà, magari un giorno salteranno fuori dagli archivi i film di quel periodo che non abbiamo mai visto e saranno completamente diversi (me lo auguro!) da quelli che ho fatto io.
Che cosa ti interessa raccontare del tuo Paese con i tuoi film?
Forse voglio scoprire in cosa consista l’essenza dello spirito dei filippini. Non ho piani grandiosi, come riportare in vita cose morte. Non è un concetto che ci appartiene: per i filippini quando una cosa è finita è finita. L’acqua lava tutto, si dice. Ora sto aiutando le persone che stanno mettendo in piedi la cineteca a Manila, con la ricerca e il restauro del film. Ma non mi piace mistificare il processo creativo. È qualcosa di molto personale, riguarda la mia famiglia, la vita che ho fatto prima di arrivare al cinema, e il senso della storia con cui sono cresciuto. I miei film sono dedicati a loro, alla mia famiglia, anche se non sono molto vicino a loro, fisicamente. Sono cresciuto con una governante, perché i miei lavoravano entrambi tantissimo e in qualche modo, attraverso le cose che faccio, sto cercando di recuperare questo rapporto, in una maniera che non è semplice né indolore. Non si tratta di dire “siamo stati lontani per tanto tempo, ora riavviciniamoci”, quanto piuttosto “cerchiamo di capire cosa abbiamo perduto”.