Come “film-di-Paolo-Sorrentino”, This Must Be the Place si presenta come un compendio esemplare di temi e stili del regista: un protagonista dal volto impassibile, dalla mise fumettistica e una propensione alle frasi ad effetto, con alle spalle un forte trauma personale e almeno una figura parentale piuttosto ingombrante, obbligato suo malgrado ad affrontare un cambiamento radicale nella propria vita. Il tutto raccontato attraverso elaborati movimenti di macchina alternati a primi piani impietosi, un montaggio che dosa attentamente tempi forti e deboli, una fotografia curatissima (di Luca Bigazzi) e, ultima ma non per importanza, una colonna sonora studiatamente eclettica. I cinefili del sabato sera, devoti del midcult, già strillano al capolavoro: è il film per loro.
Come film tout-court, invece, This Must Be the Place suona come un interminabile (e un po’ tedioso) elenco di situazioni già viste. E se nei film precedenti le cadute nella più bieca estetica da spot (l’incidente automobilistico ne Le conseguenze dell’amore, per dirne una) erano compensate di un’indubbia energia affabulatoria, qui ci troviamo di fronte a una serie di scene meccanicamente giustapposte l’una all’altra, per quanto elegantemente cesellate: sotto quella fotografia, quell’uso ardito della macchina da presa, quell’instancabile gigionismo del protagonista (uno Sean Penn stolidamente accostato a Buster Keaton), c’è il Nulla. La cosa funziona, almeno parzialmente, nella prima parte, in cui Sorrentino racconta la vita abulica e abitudinaria del suo Cheyenne, ex rockstar in volontario esilio dal mondo (nessuno è bravo a filmare il Niente come Sorrentino), ma frana miseramente quando azzarda la menoma svolta narrativa. La seconda parte del film, infatti, vede Cheyenne abbandonare il suo buen ritiro dublinese per New York, e portare a termine la missione che il padre, ebreo sopravvissuto ai lager, aveva perseguito ossessivamente fino alla fine dei suoi giorni: ritrovare un militare delle SS rifugiatosi negli Stati Uniti.
Anche a voler tralasciare la disinvoltura con cui Sorrentino si serve di una delle grandi tragedie del XX secolo come semplice pretesto narrativo (la Shoah, nella fattispecie, ma potevano essere i Killing Fields cambogiani, il genocidio armeno, le guerre coloniali italiane: non è questo il punto), è il modo con cui si affrontano gli Stati Uniti a suonare irrimediabilmente provinciale. Sulla scorta di Lynch e Wenders mal capiti (e “omaggiati” entrambi in un colpo solo con la presenza di Harry Dean Stanton), il regista mette insieme un “album di figurine” del paesaggio americano: l’indiano (cheyenne?), il dining, il motel à la Hopper, il bambino obeso, i tinelli di provincia con il loro carico di orrori ben nascosto, il bisonte… Una dietro l’altra in bella mostra, senza un minimo di rivisitazione personale né intento “critico”. In compenso (e anche qui l’influenza del Maestro di Missoula è evidente) si accentua il gusto tipicamente sorrentiniano per l’eccentrico, dal cane con il collare ortopedico all’uomo tatuato, al nazista nonagenario. Purtroppo, a differenza che in passato, Sorrentino fatica a calibrare il grottesco, e sbraca inevitabilmente nel sottofinale, quando il vecchio aguzzino, dopo aver tenuto un monologo tutto sommato incomprensibile (è una richiesta di perdono o una rivendicazione della giustezza delle proprie azioni passate?) accompagnato dai raffinati carrelli in avanti del regista, finisce per trovarsi completamente nudo sulla distesa di neve che circonda la sua abitazione di fortuna: è il modo con cui Cheyenne vendica l’umiliazione subita dal padre. Imbarazzante.
Cosa rimane, insomma, di This Must Be the Place? L’interpretazione di Frances McDormand, ammirevole per misura e stile in un film che non brilla né per l’una né per l’altra qualità; la performance di David Byrne as himself, con la quale Sorrentino fa la cosa che gli riesce meglio, ossia il videoclip; qualche gag di sapore slapstick (la pallina da ping pong); e almeno un aforisma: “Hai notato che oggi nessuno lavora più, ma che tutti fanno cose artistiche?”
Ecco, forse Sorrentino dovrebbe fare meno “cose artistiche” e lavorare di più. Con il Cinema.
This Must Be the Place, regia di Paolo Sorrentino, Italia/Francia/Irlanda 2011, 118′