Collezionare porno è evidentemente più vergognoso dello sbirciarne un po’ in caso di bisogno. Collezionare come guardare insistentemente, rimanere ossessionati, pensare unicamente a riempire i vuoti con l’esercizio compulsivo di una pratica, sia essa fisica o visuale. Collezionare come panacea dell’esistere.
In Shame il porno fa la figura del placebo. È come la cinefilia: copre le mancanze, dà soddisfazione di breve durata, novanta minuti per un film, molto meno per una scopata o una sega. Ciò che il film in verità suggerisce è che fuori, nel mondo, tra la gente, ci sia qualcosa di meglio. Ci sia da vivere. Ma tra le lenzuola non si vive: piuttosto, ci si fa. Viene di conseguenza la discesa agli inferi, dalla quale è impossibile deviare se non a costo di dolori insopportabili. Abiezione, degradazione, dannazione. Non resta che abiurare: per farlo, un urlo. Non prima però di essere scesi davvero in basso, che più in basso non si può: un pompino da un uomo. Quale vergogna. La spirale di Shame procede con giri sempre più stringenti e direttamente proporzionali al loro orrore: più si scende, più il disonore aumenta. Accettare per disperazione di seguire un marchettaro in darkroom bollenti e lasciare che questi scenda alla cintola senza tanti preliminari dev’essere per forza una cosa brutta. Davvero brutta. Talmente brutta da essere moralmente inaccettabile.
Shame attorciglia il suo protagonista in un meccanismo a trappola che lo accompagna inevitabilmente alla perdita somma: quella di un famigliare, che proprio nel momento del bisogno non trova il sostegno sperato perché in altre faccende affaccendato (nello specifico, un pompino e un threesome). Che vergogna. È moralmente riprovevole e censurabile soddisfare le necessità del proprio corpo, anche quando effimere, nel momento in cui la sorella chiede aiuto. Il risultato sta in una pozza di sangue sulle piastrelle del bagno. Il percorso di Shame è netto, dritto e semplicissimo: tanto semplice che i sentimenti sono troppo impegnativi e non possono che intralciarlo (oltre a intralciare la molto navigata prestazione sessuale, accidenti!); tanto netto che talvolta è bene farvi pulizia, gettando nel pattume tutta la paccottiglia hardcore così irresistibile ma così verosimilmente schifosa, dvd e laptop con memoria intasata di materiale ad hoc. Che spreco. Ma poco importa, perché il denaro non manca. L’uomo di Shame è ricco e prestante, sa vestire e sa correre. Sembra di ghiaccio, ma è capace anche di versare una lacrima all’ascolto di una versione soffusa e sussurrata di New York, New York. Il suo cuore, quindi, batte. Solo che lui preferisce non darlo a vedere. L’uomo di Shame preferisce farsi una pippa sotto la doccia o nella toilette dell’ufficio. E questo dimostra opportunamente che si tratta di un individuo non alone bensì lonely, con una discreta dose di problemi e allergico a unioni più lunghe di un paio di mesi (che ad ogni modo capitano una tantum).
Cosa racconta Shame? Di una caduta libera. Cosa mette in scena? Un uomo che non deve chiedere mai ma che rimane prevedibilmente travolto dalla sua stessa filosofia. Cosa implica Shame? Che la morale, anche quando cacciata dalla porta, rientra sempre dalla finestra. Il “pensiero civile” obbliga a dei sacrifici: rinunciare a masturbarsi è uno di essi. Mentre il “pensiero sociale”, con il quale si deve convivere anche se non lo si condivide, vincola l’uomo a una rinuncia ben più seria: la rinuncia alla differenza. Cosa mostra Shame? Un individuo incapace di abdicare all’osceno e per tale motivo destinato all’angoscia: cioè a un castigo che infine lo allinea a tutti gli altri, lo riporta coi piedi per terra e non più tra le gambe dei partner; un castigo che non dà tregua perché è la colpa che un tale comportamento porta con sé. Ma non ci si deve preoccupare: sentirsi anche soltanto un pochino in colpa è sintomo di guarigione imminente. Perché si deve pur guarire da questa sconcezza, no?
Shame, regia di Steve McQueen, Gran Bretagna 2011, 99′