L’incontro-scontro tra migranti e i paesi che li ospitano si può dire sia uno degli argomenti più frequentati dal cinema d’oggi. Terraferma, Cose dell’altro mondo e Il villaggio di cartone, per citare solo qualche titolo tra quelli usciti ultimamamente in Italia. Una delle prospettive da cui questo argomento può essere affrontato è quello dell’incontro tra due solitudini: lo aveva fatto lo scorso anno Stefano Incerti con un lavoro che forse meritava migliori attenzioni, Gorbaciof, lo fa oggi, esordendo nel cinema “di finzione”, un apprezzato documentarista, Andrea Segre. Come nel film di Incerti, anche qui il rapporto, che porta alla nascita di un sentimento difficilmente definibile, è quello tra un uomo anziano e fondamentalmente solo e una giovane donna cinese prigioniera del lavoro e degli obblighi contratti all’interno di un’organizzazione che, controllandone il percorso migratorio, è padrona della sua vita. Al di là delle similitudini dello spunto, ben diverso è però l’approccio drammaturgico adottato dai due registi: a differenza di Incerti, per Segre appaiono importanti l’approfondimento psicologico dei personaggi e la fondatezza sociologica della ricostruzione ambientale.
In questo suo esordio narrativo Segre non rinuncia al suo interesse documentaristico, che si esprime sia nell’accurata descrizione della comunità cinese (di cui rappresenta riti, abitudini sociali e regole, mettendone in luce anche la chiusura e la spietatezza di gerarchie che si impongono all’individuo come un ineluttabile destino), sia nell’attenta e originale esplorazione dei luoghi (che coincide con la scoperta, da parte della protagonista, di una terra sconosciuta in grado di rivelare sorprendenti analogie con quella d’origine). Sostenuto dall’ottimo lavoro fotografico di Luca Bigazzi, Io sono Li restituisce una laguna veneta che – contrariamente alle attese – non ha toni smorzati, ma anche in inverno si mostra con colori saturi e contrastati e con richiami al cinema orientale.
Come nel citato film di Incerti, anche in quello di Segre il confronto tra le due solitudini porta al riconoscimento della comune umanità, che in questo caso si esprime nella esplicita ricerca di parallelismi (Li celebra la festa del poeta Qu Yuan, e Bepi è chiamato “Poeta” perché si diverte a creare rime estemporanee, sia Li che Bepi vengono da famiglie di pescatori, ecc.). Il bisogno di trovare (magari di inventarsi) punti in comune con lo straniero assume un significato politico quando viene contrapposto alla riduzione dello straniero allo “stereotipo” che divide (il discorso dal barbiere che, verosimilmente, si nutre di slogan politici e superficiali ricostruzioni giornalistiche).
Film di atmosfere, di notevole (e non superficiale) bellezza figurativa, Io sono Li esplora luoghi e sentimenti con delicatezza e pudore, anche se talvolta calca troppo la mano sul sentimentalismo (il primo incontro col figlioletto) o si lascia andare a qualche forzatura (la scena in cui, con la lite tra Bepi e Denis, esplode il dramma) o all’ansia di voler “dimostrare” troppo (il momento in cui tutti i personaggi, compreso il “cattivo”, ascoltano la messa). Verrebbe da chiedersi se queste forzature e semplificazioni siano dovute alla giovane età di un regista che, venendo dal documentario, non ha ancora acquisito una piena padronanza della macchina narrativa e che, nell’urgenza di raccontare, ha finito per mettere più carne al fuoco di quella che è riuscito a controllare, o se siano dovute a interventi produttivi che – cercando di rendere il film commercialmente più appetibile – ne hanno smorzato le sue maggiori originalità, cercando di incanalarlo in percorsi narrativamente più consolidati e riconoscibili.
Le interpretazioni costituiscono un elemento non sempre perfettamente controllato. Se la recitazione sobria e trattenuta dei due protagonisti appare molto funzionale e convincente, non altrettanto si può dire della presenza di alcuni volti noti (Battiston, Paolini, Citran). Si prenda ad esempio la scena delle “canocie”, per molti aspetti cruciale, sia per “contenuto” (la ricerca di parentele più o meno immaginarie tra popoli lontani), sia per toni (la cordialità da osteria come forma di avvicinamento, di incontro con l’altro): bella idea di sceneggiatura che però la recitazione di Paolini e degli altri porta in una dimensione teatrale non del tutto appropriata. Viene il sospetto che la scelta di questi volti noti si sia rivelata controproducente: la loro apparizione dirotta l’attenzione dall’ambiente e dalla storia verso una talvolta eccessiva presenza scenica. In particolare, è un Battiston sovraccarico a destare perplessità: che bisogno c’era di connotare, fin dal suo primo apparire, in modo così marcato la sua diversità rispetto alla bonaria cordialità degli altri (e quindi di “telefonare” in questo modo che sarà lui, prima o poi, a provocare l’esplodere del dramma)?
C’è da augurarsi che, nelle sue future prove, il regista sappia affermare con più risolutezza l’originalità del suo sguardo, di cui comunque questo film, emozionante pur se non completamente risolto, ci ha già dato buona testimonianza.
Io sono Li, regia di Andrea Segre, Italia/Francia 2011, 100′