Seguendo la linea zigzagante del cinema autofinzionale, linea che si dipana lungo più di trent’anni di storia del cinema e che attraversa le opere di Marguerite Duras, di Chantal Akerman, fino al seminale Lettres d’amour en Somalie di Frédéric Mitterrand, Vincent Dieutre ha cesellato un sistema poetico personale e umanista, capace di incorporare e integrare i referenti taciuti o espliciti (Ackerman, Duras, Hervé Guibert, Renaud Camus) in un journal intime fluviale, vitale e mortifero al tempo stesso. Come in Je, Tu, Il, Elle di Chantal Ackerman, opera in cui l’autrice rendeva conto del fine ultimo dell’agire artistico (stabilire o ripristinare un legame intimo con il Mondo), l’esercizio dieutriano di scrittura di sé nella solitudine, nella separazione e nel ripiegamento sopperisce al bisogno umano di essere percepiti dall’Altro per sentirsi vivi. Il cinema di Dieutre è prima di tutto parola, una parola che riempie e personalizza anonime stanze di hotel come intere città.

La trilogia Bologna centrale/Bonne Nouvelle/Después la revoluciòn cristallizza il duplice processo che presiede al cinema dell’autore dei Fragmets sur la Grâce e che ho definito altrove (1) intimizzazione dello spazio pubblico e esteriorizzazione dell’intimità. Nel cinema di Dieutre tutto è intimità: il “dentro” come il “fuori”, l’“io” come il “noi” e il “voi”. E l’intimità è il luogo in cui si manifesta (“eccomi”, senza affermarsi (tramite una convenzionale identificazione di sé: “io sono…”), l’irriducibile e debole identità narrativa dei soggetti: sfumati, sfuggenti, imprevedibili. Il personaggio-narratore dieutriano si sottrae alla presa: presente e assente, udibile (per mezzo della voce over) ma quasi mai visibile. Le categorie spaziotemporali risultano, di conseguenza, sospese. Il limite che separa spazio pubblico e spazio privato si dissolve, così come la distinzione cronologica tra presente e passato. La voce narrante, nitida o metallica, segue le intermittenze del cuore e le peregrinazioni della memoria, non peritandosi di operare una gerarchizzazione tra aneddoti biografici apparentemente insignificanti (resoconti dalle “dark room” alla maniera del propotipico Renaud Camus di Tricks) e grandi, tragici eventi storici o personali: attentati terroristici, malattia, dipendenza, morte.

Dieutre visse a Bologna quattro anni, sul finire degli anni ’70, e conobbe indirettamente gli anni di lotta e la degenerazione della lotta in violenza. Bologna centrale ci parla di un ritorno, quello del regista nel capoluogo emiliano, in piena era berlusconiana. Il vitalismo e la “pienezza” (semantica e ideologica) del primo soggiorno, evocato verbalmente o con frammenti visivi in 16 mm, si oppone alla dolorosa solitudine di un presente popolato di “vuoti” impossibili da saturare: amanti scomparsi, ideologie tramontate.
In Bologna centrale, come prima ancora in Rome désolée (1995) e in Leçons de ténèbres (1999), si conferma l’apparente scollamento tra il visivo e il sonoro che è il tratto caratterizzante la poetica dell’autore. Dieutre giustappone inquadrature di paesaggi urbani deserti: vicoli, piazze, facciate; percorre non-luoghi che, a tutta prima, negherebbero ogni possibilità di scambio, di contatto. Le vicende intime vengono esteriorizzate nella narrazione del sé (voce quasi sempre registrata in loco) e proiettate in questo spazio sociale anonimo. Sono i luoghi nei quali il narratore è passato, frammenti della memoria di un viaggio: spazi pubblici interiorizzati. La voce over investe di una soggettività perturbante le statiche inquadrature, inonda le strade deserte o popolate di figure di passaggio. Un paesaggio “sociale” non solo architettonico ma acusmatico: emissioni radiofoniche e telegiornali fungono da tappeto sonoro e attivano una struggente dialettica tra una soggettività malata di solitudine e il Mondo. La storia biografica e la Storia di un paese macchiato di sangue vivono così riflesse nei portici che sfilano dai finestrini di un autobus, nelle facciate fatiscenti di edifici di periferia. I due itinerari, del singolo “straniero” in Italia e dell’Italia tutta, finiranno per convergere attorno alla lapide che ricorda le vittime dell’attentato alla Stazione Centrale di Bologna. L’immagine che capta l’incontro di Dieutre con la Storia “vibra”, i contorni si sfaldano (ralenti, flou, intarsio), come a suggerire la commozione di uno sguardo che testimonia di questa estrema congiunzione spaziale (pubblico e privato) e temporale (presente e passato). 
   
In Bonne Nouvelle, la prossimità di uno spazio vissuto, il quartiere centrale e crocevia di culture di Parigi dove Dieutre abita, impregnato com’è di memorie e ricordi, rende automatica l’intimizzazione dello spazio urbano. Il tempo interiore ridisegna ancora una volta il “fuori”, i non-luoghi di transito. Quelli che, nel cinema tradizionale, sarebbero qualificati come piani d’ambiente, diventano qui frammenti di una visione neutrale (inquadrature fisse e lunghe) che la voce over s’incarica di popolare di figure fantasmatiche, di “far vivere” e vibrare seguendo il flusso di coscienza.
   
Después la revoluciòn è un’ideale appendice al “Prima” bertolucciano. Lungi dal replicare le formule espressive dossificate e anacronistiche del “cinema della modernità”, alla maniera di alcuni contemporanei esegeti francesi del verbo godardiano (sovente mal digerito, si pensi a certi film indigesti di Christophe Honoré), Dieutre si serve del referente italiano per aggiornare, in una realtà socioculturale inedita (l’Argentina), la sua poetica ed operare un’inaspettata estensione del visibile. Qui, infatti, oltre alla consueta intimizzazione dello spazio urbano, ancor più palese visto l’inusuale lavoro sull’immagine, manipolata in sede di montaggio con effetti di intarsio, loop e dissolvenze, l’autore porta alle estreme conseguenze la sua riflessione sul fare poetico, arrivando a mostrare, in un seducente ed inevitabilmente narcisistico gioco di specchi, l’atto sessuale in precedenza solo evocato dalla voce over. Muniti entrambi di una videocamera, Dieutre e il suo amante Hugo si filmano mutualmente: corpi che pulsano al ritmo dei pixel. Questa inconsueta prossimità epiteliale rende ardua l’identificazione dei soggetti e impossibile l’attribuzione della paternità dello sguardo, favorendo la fusione baconiana di due corpi avvinti da una passione post-rivoluzionaria. Con Despuès la revolucion, che chiude idealmente il trittico, Dieutre dà infine voce all’Altro (Hugo), lo ascolta. Proprio questa apertura – oltre a far sfuggire il narratore all’abisso di una solitudine che solo il racconto di sé ha salvato in precedenza dal suicidio simbolico dell’inazione –, lo spinge alla mostrazione diretta dell’atto sessuale e ad una conseguente estensione della visibilità dello spazio intimo, prima frammentato e suggerito, ora perlustrato dall’occhio della videocamera. La parola ha infine ceduto il passo allo sguardo. Se in Bonne nouvelle e Bologna centrale ascoltare è vedere, in Después la revoluciòn vedere è ascoltare i gemiti e i sospiri di corpi performativi, che “si dicono” facendo.

(1) Cfr. M. Billi, Nient’altro da vedere. Cinema, omosessualità, differenze etniche, ETS, Pisa 2011)

4 FILMS DE VINCENT DIEUTRE (Shellac Sud)
ENTERING INDIFFERENCE, regia di Vincent Dieutre, Francia 2001, 29′
BOLOGNA CENTRALE, regia di Vincent Dieutre, Francia 2001, 61′
BONNE NOUVELLE, regia di Vincent Dieutre, Francia 2002, 59′
DESPUÈS DE LA RÉVOLUCION, regia di Vincent Dieutre, Francia 2007, 55′