Come mai, nella sua lunga carriera di filmmaker apolide, è ora approdato in Giappone?
Tutti sembrano interessati in questo paese, è un paese molto misterioso, e già diciotto, vent’anni fa volevo girare un film in Giappone. Ce n’erano due che volevo girare in particolare: uno sul Giappone e uno sulla Luna, che sarà il mio prossimo progetto. In quegli anni mi sono trasferito in America: non ho lasciato il mio Paese per motivi politici, ma solo perché avevo dei piani precisi su cosa volevo fare. Inizialmente volevo fare quattro film a New York e quattro in Giappone, poi sono andato a girare a Las Vegas, che per me è un altro Paese, completamente diverso. Ho girato Vegas: Based on a True Story, che è stato a Venezia due anni fa.
Negli ultimi dieci anni sono stato spesso in Giappone, invitato perché mi interesso di cinema giapponese. Per me il cinema classico nipponico rappresenta il cinema puro, ricco di capolavori come L’isola nuda di Shindō Kaneto. Ho sempre subito l’influenza del cinema del sol levante: l’ultima scena di Il corridore, dieci minuti senza dialogo, è ispirata dall’ultima de I sette samurai; l’idea di Acqua, vento, sabbia viene da L’isola nuda; Entezar attinge da L’arpa birmana e da Kaidan; e ho sempre ammirato i film sull’infanzia di Shimizu Hiroshi.
Ho potuto vedere i grandi classici del cinema giapponese al Museum of Modern Art di New York e alla Cinémathèque, a Parigi. Quando faccio dei workshop nelle università in giro per il mondo, insegno il cinema giapponese ai miei studenti.
Avevo intenzione di girare un film a New York sulla storia di John Cassavetes. È una delle più grandi tragedie del mondo moderno e volevo fare qualcosa per lui. Ne avevo parlato con un distributore che si aspettava ne uscisse un film biografico. Io ho detto di no e ho capito che era arrivato il momento di andare in Giappone. E’ stato come entrare in un nuovo paese dalla porta di servizio: non volevo essere uno straniero che girava un film con un cast e una troupe giapponesi, volevo fare esattamente un film giapponese. Ho cercato di ricreare con precisione lo stile giapponese lavorando con tre camere, come Kurosawa-san. Ho chiesto al regista Aoyama Shinji di collaborare alla sceneggiatura.
Il film nasce anche dall’incontro con l’attore Nishijima Hidetoshi. Lo vidi in quel film di Kitano, Dolls, e trovai che fosse un ottimo attore. Ci siamo conosciuti al Tokyo Filmex Festival. Lui aveva visto e apprezzato il mio Sound Barrier. Gli ho raccontato la storia che avevo in mente e gli ho chiesto se ci credeva e se voleva lavorare con me. E lui è stato entusiasta.
Ha parlato di un film sulla Luna. Quali sono i suoi prossimi progetti?
Il film sulla Luna appunto, per il quale andrò a fare dei sopralluoghi nel deserto in New Mexico per vedere se è fattibile, poi un film in Giappone con Nishijima Hidetoshi, e poi ho in progetto di fare qualcosa in Corea.
Com’è stato lavorare nel sistema produttivo giapponese?
L’idea di fare un film in Giappone è stata un po’ come un suicidio, perché lì sono attenti ai più piccoli dettagli. Guarda per esempio un film di Ozu-san o di qualsiasi altro regista giapponese che ti piace. Mi sono chiesto: cosa posso fare in questa situazione? Perché io sono una persona completamente diversa, sono un improvvisatore. Da dove vieni?
Dall’Italia.
Ok, per esempio mi sento come un regista italiano, come Rossellini, che affrontava le cose con spontaneità: oggi c’è il sole, faccio una certa cosa, domani c’è nuvoloso, faccio un’altra cosa, a seconda di come mi sento. Naturalmente lavoriamo con una storia, ma facciamo la storia dal momento in cui la viviamo. In Giappone era molto diverso: andavo a lavorare alle 7-8 di mattina, e staccavo alle 5 del pomeriggio, e tutti avevano sempre bisogno di sapere quante inquadrature avremmo girato, con quali macchine ecc. Non si improvvisava mai, l’improvvisazione in Giappone equivale al suicidio e questo è stato molto difficile per me.
Da Iraniano, do molta importanza alle mie emozioni, al mio cuore, e questo sembra che non vada d’accordo con la cultura giapponese. I giapponesi fanno fatica a concedere la loro fiducia, io credevo di meritarmela, e quindi avevo mostrato loro i miei film e mi ero espresso con loro spiegando le mie intenzioni, che erano quelle di fare un film sulla cultura e non semplicemente di sfruttare il medium cinematografico. Ma si sono convinti che sapevo fare il mio lavoro solo dopo avermi visto sul set, e in quel momento gli ci è voluto pochissimo per ricredersi. Non credo che ora me la sentirei di dovere affrontare ancora altre persone che mi dicono «Ehi regista, non fare così!».
Il cinema è morto? È d’accordo in ciò con il suo protagonista?
Non credo che lo sia completamente. Pensa a quel cinema di cui parlo nel mio film, esiste ancora oggi, ma è qualcosa che vive sotto la cenere. Molti giovani registi o critici non conoscono quei nomi o se li conoscono è solo per sentito dire, non ne hanno mai visto davvero i film. Chi conosce più per esempio L’isola nuda? Che se lo ricorda? Sembra che oggi ci si approfitti di questo mondo, di questo medium, per fare solo intrattenimento e cambiare il cervello degli spettatori, le nuove generazioni non hanno mai avuto l’opportunità di vedere questi film, e si rivolgono a questo medium solo per avere intrattenimento e divertimento.
Il cinema è una forma di arte moderna? Sei Italiano? Pensa a Da Vinci o Michelangelo, o qualsiasi grande artista che ha usato la pittura per fare qualcosa per il futuro. Anche il cinema è un’arte, la settima arte. L’arte comunque non esclude l’intrattenimento. Pensa a Shakespeare o Molière, facevano intrattenimento con le loro opere teatrali, ma con arte, con una tale sensibilità umana da poter essere apprezzati e capiti anche in paesi diversi dai loro. Dovremmo usare l’arte del cinema per fare documenti sull’oggi per il domani, dovremmo riuscire a esprimere quello che succede nel nostro mondo includendo anche elementi che derivano da altre arti, come la pittura, la letteratura, l’architettura, etc., per fare una nuova forma d’arte che si chiama cinema. Invece le persone che hanno il potere economico sfruttano il cinema solo per fare il lavaggio del cervello alle giovani generazioni e fotterle, uccidono il cinema ed è ormai troppo tardi per fermare questo processo. Abbiamo ancora molti giovani filmmaker di talento e sensibilità, ma non hanno un posto per mostrare i loro film. Solo vent’anni fa anche per me era più semplice far vedere i miei film, ora rimangono solo poche sale che li proiettano, come quella di Moretti e un paio di altre.
Sono ossessionato dal cinema e sono una persona ossessiva.
Questo è il mio diciassettesimo film, non il centesimo, perché se ne avessi girati tanti molti di loro sarebbero persi o dimenticati oggi, le persone potrebbero ancora parlarne ma non se ne troverebbero più le copie, come succede spesso per tanti autori del passato. Ci sono alcuni film che amo guardare e di cui amo parlare e tenerci conferenze, anche dopo averli visti tantissime volte, come L’isola nuda. E alcuni sono ancora così moderni, pensa per esempio a Sherlock Jr., che faccio vedere nel mio film, un attualissimo film sul cinema, girato ottanta anni fa e che non sarebbe più possibile fare oggi. Il personaggio che entra nello schermo e poi esce: straordinariamente moderno!
Nulla di buono può venire da Hollywood quindi?
No, penso che ci siano delle ottime persone, dei tecnici fantastici e moltissimi bravi scrittori, ma il modo in cui il loro talento viene usato è merda.
Nel film si cita Mishima. Al protagonista viene detto «Non sei mica Mishima». Si può dire che come lo scrittore, Shuji si assuma l’espiazione dei mali del mondo e il suo autolesionismo sia paragonabile al “seppuku” di Mishima?
Shuji è l’ultimo samurai che si sacrifica per quello in cui crede, il cinema puro. Il suo atto è una reazione al modo in cui il cinema è trattato nella società attuale. Ogni pugno che riceve arriva da chi ha portato il cinema a questo stato, in cui importa solo il profitto. Il cinema oggi ha bisogno di un cambiamento e quello che fa Shuji è un passo in questa direzione. Il cinema ha bisogno di sacrifici. Il cinema ha bisogno di samurai, non solo in Giappone.
In Giappone le persone sono molto oneste e silenziose, non parlano molto, e si tengono dentro molte delle cose che succedono loro. Se un giapponese si suicida, lo fa perché è il suo modo di gridare; così è morto Mishima. Quello che succede al personaggio, Shuji, è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la politica, è cinema. Col mio film sono sicuro che qualcosa succederà, le persone si parleranno e si diranno che il cinema è arte. Ho intitolato il film Cut intendendo con ciò il voler tagliare la merda dal cinema. Le persone del business, le persone dei multiplex, ecc., che hanno potere, voglio che si vergognino, e non importa se mi faranno del male. Il film è su me stesso: mi hanno preso e mi prenderanno a pugni. Ma il cinema non è guerra, il cinema è cuore. È quello che voglio dire alle generazioni future: continuate, arriveremo da qualche parte. Ecco, quindi: cut!
Quando si vede la lapide di Ozu, sono posti a un lato un mazzo di fiori e all’altro due bottiglie di sakè. Sembrano proprio oggetti tipici di quelle composizioni dell’immagine del Maestro. Gli ha collocati lei o c’erano già?
Ho messo le bottiglie nel film perché sono quelle preferite di Ozu-san, erano quelle che beveva sempre. Lascia che ti racconti una cosa su Ozu-san: una cosa che molti sanno è che se visiti la sua tomba non puoi presentarti a mani vuote, devi sempre portargli del sakè. Questo se ottieni il permesso per visitarla. Visitare un luogo di sepoltura privato in Giappone, o addirittura riprenderlo è molto difficile, perché si tratta di qualcosa di molto privato. Per farlo devi insistere per ottenere la loro fiducia e io ho dovuto spiegare che uno dei miei personaggi parla con le lapidi, che è come parlare con il cinema, di cui rimangono solo le ceneri.
Possiamo dire, in conclusione, che il kanji (l’ideogramma giapponese) “mu” che vuol dire il nulla, che campeggia sulla lapide di Ozu, possa essere riferito al cinema?
Sì perché dopo che il personaggio ha guardato la tomba di Ozu-san, e gli ha parlato, la risposta è niente. È una dimostrazione che dopo quello tutti i film smettono. È come in Citizen Kane, dove alla fine scopri che Rosebud è la palla di vetro, che non è niente. Il cinema di oggi è niente, tutto il cinema di oggi finisce come Citizen Kane. Tutto nel cinema di oggi è niente, è finito e dobbiamo farci qualcosa. Questo è ciò che le nuove generazioni devono fare: cut!
Venezia, settembre 2011