Rispetto agli anni ’90, quando la tua attività era molto intensa, in che modo è cambiata l’industria? È più difficile fare film per uno come te, adesso?
Non so dire se è più facile o più difficile. Non penso che ci siano stati “tempi gloriosi”, come quando lavoravo con Madonna per la Warner Bros., quei fottuti vampiri… Ogni film ha una storia ha sé, legata anche a chi lo vede come spettatore. A New York è pieno di ragazzini che guardano film sul cellulare. È meglio di prima? È peggio? Chi può dirlo.
Ritieni che i tuoi film siano più apprezzati in Europa che negli Stati Uniti?
Sono due mondi completamente diversi. Negli Stati Uniti non gliene frega un cazzo a nessuno dei film d’autore, non sanno nemmeno cos’è, un autore. Io sono cresciuto lì ed ero un fanatico del cinema, ma non avevo idea di cosa fosse un regista. Gli americani fanno film di tutt’altro tipo, non gli interessano le stesse cose. Gli unici argomenti di discussione relativi ai film hanno a che fare con “fa i soldi o non li fa”. Non gliene può fregare di meno chi ci ha lavorato. In Europa i miei film possono piacere o no, ciò che cambia è il modo in cui vengono affrontati, discussi. Comunque non mi pongo affatto il problema della ricezione dei miei film. Oggi possono scaricare i miei film in Cina grazie a Internet e mi sta bene così.
Mi piacerebbe affrontare i tuoi esordi… So che hai girato i primi film in super8. Che film erano? Cosa filmavi, da giovane?
Filmavo le stesse cose assurde e senza senso che filmo adesso! Eravamo liceali, i tipici rivoluzionari marxisti, presuntuosi, figli di genitori borghesi, con aspirazioni intellettuali e ci facevamo le ossa imparando in cosa consistesse il processo produttivo. Allora, tanto per dire, sincronizzare immagine e suono era un grosso problema… Oggi è tutto più semplice, visto che puoi fare un film persino con il telefonino, ma allora imparavamo le cose una alla volta…
I primi tre film che hai fatto sono un porno (Nine Lives of a Wet Pussy, ndr), un film di exploitation, Driller Killer, e una storia di “stupro e vendetta”, L’angelo della vendetta…
Vuoi che mi difenda per aver fatto quei film? Non ho capito la domanda. All’epoca era molto semplice: non c’erano i videotape e i maggiori incassi dell’epoca li facevano i porno. Oppure gli horror. Non aprite quella porta è stato fatto con 30mila dollari e ha incassato milioni. Quando l’ho visto è stato uno shock, è ancora uno dei miei film preferiti. Sapevo di non poter fare un film come quello, ma anche che volevo fare un film per lo stesso pubblico. Ecco perché ho fatto quei primi film a New York e non a Hollywood.
Non intendevi trasferirti a Los Angeles?
In realtà mi sono trasferito a vivere lì per quattro o cinque anni, ma poi me ne sono andato. Ho deciso di tornare a New York perché avevo toccato con mano la vita dissoluta, il sesso, la droga. Los Angeles distrugge i registi. Allora sono tornato dai miei fratelli newyorkesi. Basta pensare a quanti soldi vengono spesi e alla qualità finale del risultato. È un mondo pieno di gangster, solo che non sono come nei film, sono persone normali, vestite bene, ma sono pericolose! C’eravamo io, Spike Lee e Oliver Stone – il primo stava girando Malcolm X, il secondo JFK –, in quel periodo, e entrambi hanno sperimentato lo stesso tipo di pressione psicologica esercitato da quei delinquenti. Spike era il più preoccupato perché era quello più esposto a livello mediatico. Io ero lì per girare il remake de L’invasione degli ultracorpi.
Non mi sembra che da Hollywood stiano venendo fuori buoni registi, ultimamente…
Non lo so. Ora con i fottuti occhiali 3D e Internet le cose sono cambiate. Per quanto mi riguarda, non credo proprio che girerò mai film in 3D! Quando ero un ragazzo i film in 3D mi affascinavano, soprattutto gli horror, quelle cose con gli scheletri, i film di William Castle o roba del genere, ma è una tecnologia finita. Cosa pretendono, che ce ne andiamo in giro in metropolitana a guardare i film sul telefonino con gli occhiali 3D!? Il 3D è una stronzata. Non capisco che senso abbia.
Un giornalista ti ha definito come una via di mezzo tra un cattolico e un anarchico. Cosa ne pensi?
Sono stato allevato alla vecchia maniera, dalle suore. C’era questa suora spagnola, di 25 anni, me la ricordo ancora… e noi dovevamo stare tutto il tempo seduti, inginocchiati, pregare e recitare il rosario. E si praticava l’educazione corporale. Una volta che la religione è dentro di te non se ne va più. La spiritualità è una cosa complessa di cui parlare. Ma poi ci siamo trasferiti a Roma, a poca distanza dal Vaticano e non ho mai visto così tanti atei e peccatori, in giro. Penso che ce ne siano più lì di qualunque altro posto al mondo.
Uno degli argomenti più importanti del tuo cinema è il Male: come mai scegli di concentrarti su personaggi come quelli che fanno da protagonisti nei tuoi film?
Non ho avuto scelta. Ho l’impressione che se anche avessi voluto trattare altro alla fine sarebbe venuto fuori quello. Sì, ok, il protagonista di Il cattivo tenente è un pezzo di merda, un poveretto sempre a caccia di soldi, un drogato, un sex addict… Ma non c’è solo lui nel film, ci sono anche un paio di stupratori, due o tre assassini…! Scherzi a parte, nei miei film mi occupo anche di altri temi…
La redenzione, ad esempio…
Non ho idea di cosa sia la redenzione. Non ne so un cazzo. E sono stanco di essere considerato il Re della Redenzione! Ogni volta che qualcuno mi parla di redenzione in un’intervista gli chiedo di spiegarmi cosa sia la redenzione. Ma anche quando mi ha fornito la sua versione continuo a non sapere di cosa si tratta.
E il perdono?
Quello so cosa vuol dire. Il perdono e la compassione li conosco. La redenzione no. C’è qualcuno qui in sala che sa cos’è? Potete darmi una definizione? In qualunque lingua.
(un giornalista) La redenzione è morire sulla croce.
Morire sulla croce? Mi stai pigliando per il culo!? Sentiamo qualcun altro.
(una giornalista) Redenzione è la certezza assoluta che esista una seconda possibilità.
Meglio ancora se potessimo contare anche sulla ventiduesima! Un po’ meglio, come definizione. L’importante è che non si debba finire inchiodati sulla croce, per quanto mi riguarda.
Ma se un Dio c’è, non ti viene da pensare che sia cieco?
Me lo stai chiedendo o lo affermi?
Te lo chiedo!
Ma tu credi in Dio?
No. E tu?
Mi sono abituato a credere alla polizia di New York. Vi racconto una storia: il giorno della vigilia di Natale due poliziotti prendono uno spacciatore e lo portano in un vicolo. Lo mettono contro un muro e gli sparano due colpi vicino alla testa. Gli dicono: dacci un taglio, o la prossima volta non mancheremo il colpo. Lui torna a casa e dice alla moglie cosa è successo e che deve smettere di spacciare. Lei gli chiede come faranno a pagare la Mercedes o a mandare i figli alla scuola privata. Questa è la domanda: dov’era Dio in quel momento?
Di cosa parla il tuo nuovo film?
Parla della fine del mondo. Il film è ambientato la notte prima del giorno in cui finirà il mondo. Si intitola 4:44 e non 4:45… Immagino che nessuno abbia capito la battuta, non avete colto il simbolismo. È un film di fantascienza ma potrebbe anche non esserlo. Diciamo che è come se il peggiore incubo di Al Gore si avverasse.
(trascrizione parziale della conferenza stampa tenuta da Jean-François Rauger in occasione del 64° Festival del Film di Locarno)