Siamo già stati qui. In qualità di esteta – e, prima ancora, di recensore cinematografico –, Rudolf Arnheim ha predetto nel 1935:
“Uno dei compiti del critico cinematografico di domani – quando forse verrà chiamato “critico televisivo” – dovrà essere quello di liberare il mondo dalla patetica figura rappresentata oggi dal critico medio e dal teorico di cinema: costui vive nella gloria delle proprie memorie come l’attrice di vecchia fama settantenne rovista foto ingiallite e cita nomi dimenticati da tutti. Discute con gente della sua stessa risma di film che nessuno ha più visto da almeno dieci anni, e dei quali può quindi dire tutto e il contrario di tutto; dibatte di montaggio come gli studiosi medievali dibattevano l’esistenza di Dio, nella credenza che tutte queste cose possano tuttora avere un senso. La sera siede assorto in sala, critico amante dell’arte, come se vivesse ancora all’epoca di Griffith, Stroheim, Murnau e Eisenstein. È convinto di star vedendo brutti film e non si rende conto che ciò che vede non è più nemmeno un film”. (il corsivo è mio)
La crisi della critica cinematografica è stata variamente collegata al consolidarsi degli agglomerati dell’entertainment, alla diffusione dell’home video, all’istupidimento degli spettatori, ai fumi tossici della teoria filmica, alla morte della cinefilia, al ritiro di Pauline Kael. Tutto vero, ma questa crisi non è forse radicalmente legata alla scomparsa dei film?
Non letteralmente, è chiaro. Oggi i film hanno più rilevanza culturale che mai. Entertainment Tonight dispone dello stesso spazio televisivo dei notiziari serali. Interi canali via cavo sono dedicati alla promozione di nuovi film e di star che esercitano più potere e fanno più soldi di quanto sia mai capitato nella storia dell’umanità. Anche gli incassi sono in aumento – almeno a livello generale – e la notte degli Oscar, il festival annuale dell’autocongratulazione, si è trasformato nella controparte “femminile” del più “maschio” Super Bowl nella celebrazione dell’identità nazionale. Negli Usa, essere intrattenuti è quasi un dovere patriottico, persino una forma di lavoro non retribuito. Per chi ha poco tempo, Entertainment Weekly di Time Warner è un’utile sostituto consuntivo. Liberi dall’obbligo di vedere/sentire/leggere tutta questa roba, si può scorrere le pagine della rivista, scorrere le graduatorie e sentirsi aggiornati. Fatevi un’ opinione.
(E tu, lettore, cosa vorresti sapere di un film che non hai mai visto e potresti non vedere mai? Un resoconto della trama che si interrompa al momento giusto per non rovinare il gusto di svolte a sorpresa? Una descrizione divertita dell’apparenza fisica delle sue star – in ascesa? in declino? Una sobria valutazione della competenza della realizzazione tecnica? Un accertamento evidente della personalità del regista? Una speculazione riguardo la posizione del film nella storia [del cinema?] o di quanto illustra la maniera in cui viviamo? Davvero ti importa se mi è piaciuto e perché? La domanda è: “devo andare a vederlo al cinema o posso aspettare che esca in video?”)
Che altro c’è da dire? La familiarità può essere motivo di disprezzo, ma il cinema commerciale dà grande importanza a una forma di conoscenza preventiva (in nessun altro mezzo di comunicazione lo stigma di “difficile” – che varia dall’assenza di attori celebri alla presenza di sottotitoli – rappresenta una condanna peggiore). Le star sono una sorta di marchio di fabbrica vivente, le sceneggiature cliché organizzati secondo le regole dei generi. I film sono fatti in serie e serializzati in remake. Tutto ciò che è stato venduto può essere venduto ancora… e ancora. Inoltre, i film rappresentano il nesso ideale per dare vita a una serie infinita di riferimenti incrociati e accoppiamenti sinergici. Così come oggi i film riprendono le vecchie serie TV, a teatro si rifanno vecchi film. Un tempo le cosiddette novellizzazioni venivano scritte dopo l’uscita del film, oggi vengono pubblicate prima che sia realizzato.
Più i vecchi film di Hollywood vengono definiti arte (in maniera sentimentale, per via del rapporto sentimentale che ci lega ad essi), più si fa grossolano il nostro apprezzamento della produzione odierna. Un flop è, per definizione, un fallimento artistico; la qualità è sinonimo di successo economico (o, quanto meno, di notorietà). Benché i critici continuino a lamentarsi del declino dei valori narrativi, la storyline che tutti gli americani hanno imparato a seguire è quella febbricitante scritta dal box-office. Ogni grossa produzione mette in scena il proprio, effimero metadramma su Entertainment Tonight. Ogni estate, il pubblico è invitato a far parte della Storia facendo la fila per vedere Independence Day o Il mondo perduto – come sono altisonanti quei titoli! – durante il loro primo week-end di incassi milionari.
Un film è, quasi per definizione, la registrazione di ciò che è stato – e quanto bramiamo ciò che non esiste più! A 58 anni di distanza dall’uscita di Mr. Smith va a Washington, Variety ha riportato che il pubblico americano considera ancora Jimmy Stewart l’uomo più affidabile in America.
Nell’attimo di autoanalisi nazionale che ha fatto seguito alla morte di Stewart, molti hanno ricordato con meraviglia le sue virtù vecchio stampo, la sua modestia, il miracolo della sua “ordinarietà” attoriale, i valori positivi incarnati dai suoi personaggi. Il fatto è, come sempre, che le stelle di Hollywood sono i nostri supremi impiegati statali. Il pettegolezzo moderato favorisce l’illusione coesiva di un’intima America in cui tutti si conoscono e si preoccupano per gli altri. Le celebrità del cinema – e i media di intrattenimento che le mettono in mostra – danno vita a ciò che il teorico del nazionalismo Benedict Anderson ha chiamato “Comunità Immaginaria”. E non si tratta solo della nostra: quando, nel 1955, le pellicole americane hanno riempito il vuoto lasciato dalle industrie cinematografiche locali in declino in Europa, America Latina e Asia, i guadagni ottenuti dai noleggi all’estero avevano sorpassato gli incassi del box office domestico.
Nell’Unione Sovietica totalitaria, si dava per scontato che l’intrattenimento delle masse rappresentasse un aspetto dell’apparato ideologico di Stato e la politica si fondesse con lo show business. Ovviamente, non possiamo dire lo stesso dell’America (o almeno, non in televisione). Ad ogni modo, questa Comunità Immaginaria – dichiarata in base all’esistenza di sentimenti, desideri e gusti comuni – è una necessità economica. Perché, se il requisito indispensabile della produzione di massa è il consumo di massa, il consumo di massa è stabilito al fine di creare desideri di massa – relativi ai film, tra le altre cose. E poiché praticamente tutti i recensori, in qualità di giornalisti, sono costretti a scrivere dei film prima che la maggior parte della gente abbia modo di vederli – con il pollice su o il pollice verso come parodie di imperatori romani –, essi finiscono per non essere altro che l’ennesima parte di un più vasto meccanismo dedito a inculcare nelle masse l’urgenza di vedere.
Benché le recensioni cinematografiche rappresentino storicamente il favore fatto dai giornali in cambio delle inserzioni pubblicitarie relative ai film, oggi sono direttamente gli inserzionisti a commissionare le proprie recensioni in sei parole (compiendo la funzione secondaria di fornire pubblicità gratuita ai recensori e, naturalmente, ai periodici o alle trasmissioni che le ospitano). Fare il recensore cinematografico vuol dire stabilire un patto faustiano con l’industria. Puoi avere il tuo nome (e le tue parole) stampato su un quotidiano o su un poster a caratteri grandi come quelli di Tom Cruise. Qualcuno mette ancora in dubbio il fatto che i recensori scrivano con l’intento di venire citati o parafrasati? Ci sono recensori fantasma che esistono solo in quanto creatori di citazioni (il termine che l’industria ha coniato per loro è quello di “blurb whores” [puttane editoriali, ndt]). Nel 1989, Rex Reed si è lamentato con Variety del fatto che gli agenti pubblicitari di una compagnia gli avevano chiesto di abbellire una recensione; otto anni più tardi Variety segnalava che una grande compagnia aveva cominciato a mandare citazioni preconfezionate ai freelance, invitandoli ad apporre il proprio nome a quella che ritenevano più condivisibile.
Uniti nella necessità di promuovere il loro ultimo blockbuster, i press agent dei vari Studio e i giornalisti cinematografici intrattengono una relazione simbolica (Premiere, un periodico per il quale ho lavorato per sei anni, ha trasformato i reportage dal set in forme appena più letterarie dei press-book forniti dagli Studio). Di norma, gli Studios festeggiano la prima di un grosso investimento organizzando un “industry junket” e facendo volare a New York o Los Angeles giornalisti da ogni parte d’America per vedere il film, partecipare al banchetto offerto in un hotel e poi prendere parte a un susseguirsi di tavole rotonde di pochi minuti con le celebrità. Suddividendo i giornalisti in categorie legate al loro valore d’uso, gli uffici stampa offrono proiezioni anticipate, brevi clip e accesso alle celebrità in cambio di frasi a effetto e superlativi anticipati.
Il giornalista delle riviste partecipa quindi dell’hype anticipatorio legato al film e, contemporaneamente, della lotta tra riviste rivali per assicurarsi le foto da copertina delle star. La celebrità è la moneta del regno – l’ultima voga in fatto di plusvalore che, grazie alla magia dell’endorsement, trasforma, come ha scritto Marx nel Capitale, “ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale”. Gli uffici stampa tengono d’occhio costantemente i giornalisti, stipulano regole di spazio e formato e barattano spazi copertina (e, quando possono, altri aspetti del contenuto editoriale). E se gli agenti pubblicitari considerano la stampa come un rivale potenziale nella creazione di una star, l’assunto di fondo è che giornalisti e recensori sono troppo stupidi per capire che potrebbero fare molti più soldi scrivendo sceneggiature o press-book.
Nell’aprile del 1997 l’opinionista dei media James Wolcott, ha scritto su Vanity Fair che i critici cinematografici “possedevano la spavalderia orale dei pistoleri. Lesti a estrarre l’arma e dall’irritazione facile, avevano il potere di abbattere film e spezzare carriere”. Poi la frontiera si è chiusa. Di fronte al silenzio del suo idolo Pauline Kael, Wolcott lamentava il fatto che “la critica cinematografica è diventata una malattia sociale, un caso di depressione cronica di gruppo caratterizzata da bassa autostima”. A rafforzare quest’idea c’è il fatto che a veicolare la sua tirata è una rivista che dedica un’enorme quantità di spazio al cinema e alle sue star senza dar l’impressione di sentire la necessità di dare spazio alla critica cinematografica vera e propria.
In aggiunta, gli Studios di Hollywood sono principalmente interessanti nel riciclaggio del denaro grazie ai parchi a tema, ai videogiochi interattivi, ai cd-rom e agli screensaver dei computer. È ciò che intendeva Bazin con il “Mito del Cinema Totale”. Anticipando di qualche decennio i compatrioti Guy Debord e Jean Baudrillard, Bazin aveva previsto la logica storica secondo la quale i film, e i loro discendenti più tecnologicamente perfetti, col tempo avrebbero fatto di tutto per soppiantare il mondo: la Realtà Virtuale.
Nel “Mito del Cinema Totale”, l’elemento chiave era rappresentato dallo sviluppo del cinema sonoro alla fine del 1927 – la magica simultaneità di immagine e suono che il filmmaker austriaco sperimentale Peter Kubelka ha definito il “Sync Event”. Era stato proprio questo sviluppo tecnologico a spingere Arnheim a dichiarare che il critico cinematografico “è convinto di star vedendo brutti film e non si rende conto che ciò che vede non è più nemmeno un film”.
La Walt Disney Company e Time Warner, due dei maggiori agglomerati mediatici del mondo, vennero entrambi fondati sulla scorta del miracolo della sincronizzazione sonora. Con il film sonoro arrivarono The Jazz Singer e l’assai più longevo intrattenitore dalla faccia dipinta di nero, Mickey Mouse. Quest’ultimo è stato profetico dello stadio successivo del Cinema Totale: la sconfitta dell’autorità della macchina da presa da parte dell’immagine digitalizzata. Sempre di più, il futuro assomiglia al “remake” di quattro minuti di Gioventù bruciata di Paula Abdul o allo spot computerizzato della Diet Coke in cui Elton John suona al fianco di Louis Armstrong per il divertimento di Humphrey Bogart. I vivi e i morti festeggiano insieme sotto il segno di un marchio di fabbrica, gli dèi abitano tra noi da qui all’eternità.
Lo stesso nome “Time Warner” suggerisce la fusione di notizie e intrattenimento (tanto che il blockbuster Warner dell’estate 1996, Twister, era sulla copertina di Time in occasione di un reportage sui tornado). La ditta rivale, la Disney, è considerato “l’artista corporativo supremo”, la figura più importante della cultura di massa, la prima a saturare l’America con i suoi marchi di fabbrica culturali, a servirsi della televisione per creare un sistema di hype autoperpetuantesi, un creatore dal respiro talmente universale che le sue fantasie sono probabilmente stampate nel nostro DNA e il suo Magico Regno ha incorporato una grossa porzione di Manhattan. (Non dovremmo forse stabilire una volta per tutte che la bandiera americana è anch’essa un marchio fabbrica, dato in licenza perpetua a Walt Disney?).
Sulla scorta del marchio Disney, il film hollywoodiano di successo è ormai costituito da un insieme sempre meno interessante di promozione multimediale e da un potenziale pacchetto di remake e spin-off, mosse carrieristiche e gadget di complemento. (Tale rendita sussidiaria ha sorpassato persino gli incassi al box-office di megablockbuster come Batman e Jurassic Park). Come riportato sulle pagine di Time, il presidente di Time Warner Gerald Levin ha annunciato con candore inusuale l’uscita del loro prodotto di punta per il Natale 1996, un’epica sintesi di animazioni Looney Tunes e spot per le sneakers di Michael Jordan: “Space Jam non è un film. È un evento di marketing”. Il film animato della Disney dell’estate seguente, Hercules, si è spinto persino oltre (prevenendo così ogni sorta di critica), facendo satira su se stesso in quanto evento di marketing.
In attesa del compimento del Cinema Totale, gli americani vivono già nel mondo del Docudrama Totale (immaginatelo come un mix di live-action e animazione alla Chi ha incastrato Roger Rabbit?). La simbiosi di intrattenimento, storia e politica indotta dalla televisione è così completa che nessuno si lamenta se i memorabilia di Star Trek vengono custodite come reliquie insieme a frammenti di pietra lunare o all’autentico Spirit of St. Louis di Lindbergh nell’equivalente americano della Cappella Sistina: il National Air and Space Museum di Washington. Questa tecnologia in grado di fabbricare segni e testimonianze concrete contribuisce a formare la nostra memoria collettiva: proiezioni condivise di un passato immaginario.
Come previsto da American Graffiti di George Lucas e dimostrato dal suo Guerre stellari, come evidenziato dalle carriere di Steven Spielberg e Ronald Reagan, Hollywood è la depositaria principale della nostra memoria culturale, oltre che dell’autorità. Nell’introduzione a una raccolta di saggi su Schindler’s List, l’israeliana Yosefa Loshitzky ha spiegato come il fatto di aver girato il film ha trasformato Spielberg in qualcosa di più che un artista: “la sua testimonianza, nell’estate del 1994, di fronte a un comitato di studio riguardo i ‘crimini contro l’umanità’ dimostra che il regista commerciale di maggior successo nella storia di Hollywood ha d’un tratto ottenuto lo status di ‘esperto’ riguardo un fenomeno sociale complesso e controverso semplicemente per aver realizzato un film che tratta il salvataggio di un gruppo di ebrei sottratti ai nazisti”.
In un mondo saturo di cinema, qualunque notizia può essere messa in gioco come in un vecchio flipper, rimbalzata da una superficie specchiante all’altra. A poche settimane di distanza dalla storia riguardante la presunta aggressione della pattinatrice Tonya Harding ai danni della rivale olimpica Nancy Kerrigan (faccenda presto dimenticata), il New York Times scriveva che almeno una decina di compagnie cinematografiche “e diversi studi e network televisivi” erano a caccia dei diritti per l’adattamento della vicenda. Da allora, le riviste hanno preso l’abitudine di vendere in maniera sempre più sfacciata i diritti cinematografici dei materiali che pubblicano, mentre la Disney è in prima fila nel commissionare direttamente ai giornalisti l’investigazione dei fatti, eliminando in tal modo l’intermediario editoriale.
“La finzione gocciola lentamente e inesorabilmente nella realtà” ha scritto Benedict Anderson, “rafforzando la fiducia della comunità nell’anonimato, che rappresenta la caratteristica principale delle nazioni moderne”. Nell’ambito di un mondo trasformato inesorabilmente nella rappresentazione di se stesso, i film biografici o storici ad alto budget – un tempo l’ultima voga in fatto di produzioni televisive per lo spettatore medio borghese – sembrano essere diventati il genere hollywoodiano per eccellenza. Contromitizzazioni autoproclamate come Patty – La vera storia di Patty Hearst, Nato il 4 di luglio, The Doors, JFK – Un caso ancora aperto, Ruby – Il terzo uomo di Dallas, Malcolm X, Quiz Show, Hoffa: santo o mafioso?, Schindler’s List, Panther, Apollo 13, Gli intrighi del potere – Nixon, Larry Flint – Oltre lo scandalo ed Evita – così come le loro controparti satiriche o d’avanguardia (Forrest Gump, Ed Wood, Ho sparato a Andy Warhol), stanno al periodo di transizione post-Guerra Fredda delle presidenze Bush e Clinton, come la superfantascienza di Lucas e Spielberg stava all’età di Reagan e l’epica dell’antichità ai primi anni ’50: esibizioni spettacolari di pura potenza cinematografica, potenziali interventi, contributi al (se non direttamente succedanei del) discorso nazionale.
In assenza di ciò che un tempo veniva considerato “film”, Arnheim ricordava al critico del 1935 il suo “secondo grande compito” – spesso trascurato in virtù di una ricercata “critica estetica” – ovvero: “l’esame del film in quanto prodotto economico e in quanto espressione di punti di vista politici e morali”. Come potremmo fare altrimenti? Come ha spiegato il collega e contemporaneo di Arnheim, Siegfried Kracauer: “un buon critico cinematografico è tale solo se sa essere un critico della società”. (Oggi è vero anche il contrario).
Come spiegato da Terence Davies nel suo capolavoro del 1992 Il lungo giorno finisce, i film sono allo stesso tempo la più soggettiva delle esperienze individuali e la più pubblica delle arti. L’alter ego decenne del regista è pieno di amore per l’ineffabile, una fascinazione per quel mondo che sullo schermo non ci è mai dato di vedere.
Quell’amore è scomparso? Era appena trascorso il centenario della prima esibizione pubblica del cinematografo dei fratelli Lumière quando Susan Sontag ha decretato la morte della cinefilia in un articolo pubblicato sul New York Times Magazine: “I cento anni del cinema sembrano avere la consistenza di un ciclo vitale: una nascita inevitabile, l’accumulo costante di onori e, nell’ultimo decennio, il principio di un infamante e irreversibile declino”.
I lettori del Times misero rapidamente in evidenza la visione altamente selettiva e limitante del cinema cui faceva riferimento la Sontag che, per esempio, sosteneva che nei primi venticinque anni del sonoro, e presumibilmente anche in seguito, solo la Francia avesse prodotto “un ampio numero di splendidi film”. Non si faceva menzione dei film cinesi contemporanei né degli autori indipendenti americani (né di Chantal Akerman, Atom Egoyan, Raul Ruiz, Lars von Trier, Stan Brakhage, Takeshi Kitano o Abbas Kiarostami…). L’autrice ha poi ribadito un disinteresse nei confronti del cinema americano durato tutta una carriera, portando il lutto per la parabola discendente di registi come Francis Ford Coppola o Paul Schrader.
In virtù dell’approccio storico, tuttavia, l’articolo della Sontag veicolava un familiare sentimento di malinconia. Il Millennio imminente, la piaga dell’AIDS, il collasso del socialismo e la fine della Guerra Fredda hanno ispirato numerosi necrologi simili, atti a decretare la scomparsa – reale o solo percepita – di tante meraviglie: il modernismo, la consapevolezza storica, la cultura dell’opposizione, il canone letterario, l’industria americana, il partito democratico, New York City, il baseball, il teatro di Broadway, la vita notturna del centro, i sindacati, il giornalismo stampato, tutti destinati ad essere rimpiazzati dalla fittizia realtà virtuale di una “cyber-utopia” immiserita. La verità è che i film sono diventati tutt’uno con lo spettacolo della vita quotidiana.
La cinefilia degli anni Sessanta è finita – perché esistesse era necessaria non solo l’esistenza del cinema di quegli anni ma anche quel particolare momento sociale. Se i Sessanta e i Settanta hanno dato vita a una cultura critica cinematografica di una pluralità senza precedenti, gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati da un costante ripiegamento su se stessi, una profonda ignoranza del cinema mondiale e un corrispondente disinteresse – da parte tanto dei critici quanto del pubblico americani – nei confronti dei film di altre nazionalità. Ancora più disturbante è stata forse l’incapacità di quella cultura, nata negli anni Sessanta anche grazie alla Sontag, di insediarsi come una presenza intellettuale stabile. (Dopo Reagan ci aspettavamo che la filmologia diventasse una delle attività centrali della nostra epoca, ma forse c’è ancora qualcosa di sospetto nel prendere i film troppo sul serio – tranne che dal punto di vista economico, naturalmente).
Nelle due pagine su cui era stampato l’articolo della Sontag faceva mostra l’immagine di una copertina dei Cahiers du cinéma, ma si trascurava di segnalare il dibattito in corso sulla rivista francese riguardo la natura dell’amore per i film. “È necessario curare la cinefilia?” era la domanda posta dal numero di gennaio ’77 dei Cahiers che, nel citare gli scritti di Ricciotto Canudo (1879-1923), riportavano in vita una cinefilia non meno intensa di quella degli anni Sessanta. “Ciò che è singolare, caratteristico e significante, anche più dello stesso spettacolo [cinematico]” scriveva Canudo, “è l’uniformità della volontà degli spettatori che appartengono a classi sociali differenti, dalle più basse dei meno colti a quelle più intellettuali”. Canudo vedeva nel cinema “il desiderio di una nuova celebrazione collettiva, di una nuova, gioiosa unanimità che ha luogo in occasione di uno spettacolo, in un luogo in cui gli uomini, insieme, possono dimenticare, ciascuno a suo modo, la propria isolata individualità”.
Dobbiamo dunque accettare che la critica cinematografica sia inevitabilmente un’altra forma di pubblicità? O, detto altrimenti: è davvero pensabile trovare un proprio posto al di fuori del sistema mediatico? (Per la maggior parte degli anni Novanta le industrie cinematografiche nazionali che hanno ispirato il maggior entusiasmo cinefilo sono state quelle, considerate outsiders, di India e Cina). Chi vuole prendersi la briga di rovinare la festa?
C’è però una ragione per cui la critica cartacea è davvero obsoleta. Dopo tutto, è difficile decretare l’esistenza di qualcosa che viene ignorato dalla televisione. Mentre girava il suo film amaramente confessionale, Ginger e Fred, Federico Fellini – incarnante per decenni la nozione popolare di artista cinematografico – parlò “dell’incantato palazzo della TV”. Prendendo spunto da una coppia di imitatori di celebrità, Ginger e Fred è ambientato in un ambiente ermetico e controllato – lo studio di Cinecittà trasformato in qualcosa di simile a un centro commerciale – dove l’intrattenimento si nutre di intrattenimento. Fellini si lamentava di questo: che in un mondo sovraccarico di immagini destinato alla completa saturazione commerciale da parte di canali come MTV e E!Channel, i film erano scomparsi. Anche il grande Fellini era stato spodestato dalla TV.
Nell’intento di dileggiare i surrogati, Ginger e Fred pullula di imitatori di celebrità ma, come ha compreso Andy Warhol, la celebrità è continuamente riacquistabile. Ed Wood di Tim Burton (1994) è il risultato della scelta di uno dei registi più commercialmente affidabili di sempre di investire il proprio credito in un sentito omaggio in bianco e nero alla visione sgangherata e oscura di un alcolizzato, dedito al travestitismo e saltuariamente alla pornografia, affettuosamente noto come “il peggior regista di tutti i tempi”. Non c’è niente di meglio della pubblicità negativa, ed essere il Peggior Regista di Sempre significa incarnare un concetto particolarmente alto.
La celebrità è assoluta e, naturalmente, Ed Wood è privo di difetti, realizzato con lo stesso furbesco mestiere di ogni altro film di Tim Burton. L’accurata replica da parte di Burton delle creazioni accidentali di Wood suggerisce l’idea di un territorio scomparso di Hollywood, il Buena Park Palace of Living Art, dove la Monna Lisa o la Madre di Whistler sono riprodotti come sgargianti diorama di cera, e la Venere di Milo viene migliorata non solo grazie all’apporto del colore, ma anche attraverso il restauro delle sue braccia. Ed Wood è il Palace of Living Art al contrario: l’arte non viene riprodotta in forma di kitsch, è il kitsch vivente che viene imbalsamato in forma di arte. Deliberatamente o no, Ed Wood ha decostruito ogni tipo di falsa apparenza hollywoodiana. Ed Wood le ha rimesse in piedi, più perfette di prima – l’ironia principale del film è l’aver liquidato l’ironia stessa.
“Sappiamo bene che occasionalmente – e questo sarà vero anche nel futuro – grazie a un avanguardista, a un cineasta amante del passo ridotto o a un coraggioso documentarista, i veri film vengono ancora realizzati; ma il lavoro di un critico non è occuparsi di questi casi eccezionali. Deve invece confrontarsi con la produzione di tutti i giorni, che può essere sottoposta a critica estetica solo qualora ricada – per principio – in campo estetico: ovvero quando si manifesta la possibilità di creare un’opera d’arte. Un tempo i buoni film differivano da quelli mediocri solo per quanto concerneva la loro qualità. Oggi rappresentano le eccezioni, gli outsider, oggetti di una natura radicalmente differente da quella che si manifesta normalmente al cinema.” (Rudolf Arnheim, “Il critico cinematografico di domani”)
Sì, ma… come resistere? Difendendo film underground su Internet? Esaltando un cinema di intrattenimento che si rifiuta di intrattenere? “Mars Attacks! vuole essere un film di anti-intrattenimento” ha scritto incredulo il critico del celebrativo (e celebrità-dipendente) New Yorker riguardo il divertissement dada da un milione di dollari di Burton.
Allo stesso modo, nel 1996, Il rompiscatole con Jim Carrey, una riflessione violentemente discordante, e in forma di slapstick, sulla performance, l’interpretazione dei ruoli e tutto quanto rappresenta E!Channel, venne osteggiato proprio a causa dell’inatteso attacco nei confronti del sistema che l’aveva partorito. “La vista scioccante di un talento incostante in caduta libera”, per il recensore del New York Times, dedito a interpretare un impiegato pubblico stellare (e un architetto della Communità E!-mmaginaria), il “cable guy” da 20 milioni di dollari di Jim Carrey era cultura di massa e accelerava l’ostilità latente percepita persino dal più tenace partecipante alle celebrazioni collettive.
“The Mistery Science Theater 3000”, per anni parte del palinsesto via cavo di Comedy Central, aveva per protagonisti un paio di spiritosi spettatori umanoidi animati che presentavano i più inetti e sconclusionati film da drive-in degli anni ’50, inclusi, naturalmente, quelli di Ed Wood. L’aggressione compiuta da MST3K (come veniva abbreviato dai fan) nei confronti di quegli sventurati vecchi film che finivano nella macchina della decostruzione è l’esatto opposto delle stupide “recensioni” positive che le “puttane editoriali” assicurano oggigiorno profondendosi a favore delle più scialbe produzioni odierne. Anche MST3K è un’azione di retroguardia, certo, ma qualcosa dovrebbe insegnarci.
A che scopo accontentarsi di un semplice schiavetto editoriale se l’intera organizzazione è a disposizione? Il Cinema Totale è la nostra seconda natura e, come Griffith, Eisenstein e i surrealisti hanno dimostrato tanto tempo fa, il significato cinematico è un fattore di contesto e giustapposizione – per non dire di sconvolgimento premeditato. (In un senso sociale potremmo chiamarlo rieducazione). Prima o poi – più prima che poi, direi – il più elaborato blockbuster da 100 milioni di dollari finirà nelle vostre mani in una vhs da 19 dollari e 95.
Così come, di recente, gli esempi più radicali di critica cinematografica sono stati, di gran lunga le compilation di found footage, come Tribulation 99 di Craig Baldwin, Rock Hudson’s Home Movies di Mark Rappaport e Chantal Akerman by Chantal Akerman di Chantal Akerman, il più importante critico cinematografico degli ultimi trentacinque anni è stato, naturalmente, un regista. “La storia più grande è la storia del cinema” ha detto Jean-Luc Godard a Serge Daney.
Quella storia costringerà i critici che rifiutano di trasformarsi in cheerleader sottopagate a diventare storici a loro volta – per non dire archivisti, bricoleurs, esperti, impresari, combattenti guerriglieri contro gli agglomerati e, in generale, maestri di ciò che nel Palazzo Incantato è noto come “controprogrammazione”.
(pubblicato originariamente su The Village Voice nel 1998; traduzione di Alessandro Stellino)