Il cinema-vérité, sottogenere del documentario per il quale Allan King è noto, è uno di quei concetti utili ma elusivi che puntellano il paesaggio del pensiero e della storia del cinema. Come i termini “Hollywood” o “cinema sperimentale”, tutti sanno cos’è il “cinema-vérité”, ma il concetto che ciascuno ne ha è sempre leggermente, se non radicalmente, diverso da quello di un altro. Il termine venne coniato dallo storico del cinema George Sadoul in riferimento al film di Jean Rouch e Edgar Morin Chronique d’un été (1960). Rouch e Morin utilizzarono un equipaggiamento nuovo per l’epoca, macchine da presa 16mm sincronizzate a registratori portatili, per intervistare i parigini nei loro vari stati d’animo. Il girato venne montato come una serie di lunghe riprese ininterrotte. Le conclusioni restavano aperte – come Rouch e Morin riconoscono nel finale, intervistandosi a vicenda e sostenendo, con una scrollata di spalle, che l’esperimento fu un successo parziale.
Oggi, almeno nel mondo francofono, Chronique d’un été verrebbe considerato “cinema diretto”. Il termine fu utilizzato da Robert Drew per descrivere un utilizzo completamente differente, benché contemporaneo, dello stesso equipaggiamento in una serie di documentari per la tv prodotti per Time-Life a partire dal 1960. La maggior parte dei critici di lingua inglese chiamano quei film cinema-vérité. Ciascuno dei film di Time-Life era una storia montata in maniera serrata a partire da eventi che promettevano un certo grado di drammaticità. Chi vincerà le primarie in Wisconsin? Riuscirà il condannato a scampare la sedia elettrica? Ce la farà una giovanissima Jane Fonda a sfondare a Broadway? Diversamente da Rouch e Morin, i filmmaker scelti da Drew per la sua serie – Richard Leacock, D. A. Pennebaker, i fratelli Maysles e altri – raramente apparivano nei propri film o intervistavano i propri soggetti in macchina. A loro piaceva considerarsi mosche sul muro che osservano l’azione circostante. Si creava così la grande illusione che le storie si raccontassero da sole.
Nel 1963, molti praticanti francesi e americani di questa nuova forma di documentario si incontrarono a Lione per confrontarsi sulle reciproche differenze stilistiche e semantiche. Emergeva già una nuova tendenza: si aveva infatti l’impressione che le strategie e gli strumenti utilizzati dal cinema-vérité potessero funzionare anche con quello di finzione. In Francia, Jean-Luc Godard girava i propri film rapidamente, per la strada, mettendo insieme attori professionisti e non, interrompendo saltuariamente l’azione per intervistare i propri personaggi. Negli USA, John Cassavetes si serviva della camera a mano per filmare, in singole riprese, lunghe sequenze d’improvvisazione dei suoi attori. E non si trattava di esempi isolati. Alla metà degli anni ’60 c’era un’onda crescente di coraggiosi lungometraggi più o meno indistinguibili dai documentari del cinema diretto o del cinema-vérité. E nel 1967, Jim McBride e Kit Carson girarono David Holzman’s Diary, il primo di tanti lungometraggi di finzione deliberatamente realizzati per parodiare i cliché del cinema-vérité.
Il doppio paradosso riguardante l’obbligo di scelte stilistiche da parte del documentario e la preoccupazione che tali scelte potessero sovvertire il senso stesso del documentario è un punto di partenza importante per affrontare il lavoro di Allan King. I film di King hanno infatti avuto spesso a che fare con i trabocchetti e le contraddizioni che da sempre caratterizzano i discorsi intorno al cinema-vérité. Il suo cinema parte dalla scoperta personale dell’intervista filmata, ed è pieno degli incontri “faccia a faccia” che caratterizzavano lo stile francese. King ha rivolto la propria macchina da presa verso chiunque, fossero leader politici d’importanza mondiale o hippy strafatti, e ha fornito un rimarchevole ritratto di ciò che queste persone erano e di ciò che pensavano di star facendo. Come gli americani, King ha contribuito alla “zuppa semantica” grazie a una lunga e meritoria carriera nel campo degli “actuality drama”. Film come Warrendale (1967), A Married Couple (1969) e Who’s in Charge? (1983) sono stati accolti con clamore da parte di network televisivi, critica e pubblico. Da allora, con uguale successo, King ha diretto numerosi drammi televisivi e lungometraggi che devono molto all’occhio esperto e al talento di di chi si è cimentato nel cinema-vérité. Pochi altri registi hanno avuto così tanto da dire riguardo la narrazione drammatica dei propri documentari e sullo stile documentario nei film di finzione.
Sin dall’inizio, King aveva buone possibilità di sviluppare il proprio approccio sia nel cinema documentario che in quello di finzione. Si è trovato al posto giusto in occasione di svariati inizi: la nascita della televisione canadese; l’introduzione delle prime macchine da presa sincronizzate; l’avvento del cinema-vérité nelle sue varie forme; l’epoca d’oro degli “anthology drama” canadesi; la nascita dell’industria cinematografica nazionale; e anche al formarsi di un ramo dell’industria canadese atta a supportare le produzioni televisive americane. King ha sempre dimostrato un’acuta consapevolezza di questi momenti e delle possibilità che offrivano. All’interno del cinema canadese è stato una sorta di visionario. Spesso e volentieri, è stata l’industria a dover stare al suo passo.
Nei suoi film migliori, King ha avanzato una prospettiva coerente e personale all’interno del dibattito sulla morte dell’autore. Il suo cinema ha motivi, linee guida e personaggi identificabili. I suoi film, ad esempio, sono spesso ambientati in un contesto utopico, se non distopico. Quando ci troviamo in una qualche sorta di paradiso, King, come Thomas More nell’Utopia originale, è restio a fornire la propria approvazione nei confronti del luogo. I suoi utopici personaggi possono essere genuinamente meritevoli – spesso artisti, o persone che prendono sul serio la vita delle avanguardie – oppure semplici posers, che trasformano un piccolo mondo perfetto nel suo opposto.
Le regole per mezzo delle quali si sviluppano i suoi plot sono strettamente esistenziali. Come molte persone della sua generazione, cresciute all’ombra intellettuale di Sartre, Camus o Bergman, King crede che gli uomini non siano altro che le loro azioni. La vita non è ciò che diciamo che sia ma il modo in cui la viviamo. Coma ha dichiarato nel 1998 al Globe and Mail: “Credo che tutti i miei film, alla base, si interroghino sul perché abbiamo così tanta difficoltà a fare quello che diciamo di voler fare”. La scelta, nei film di King, è un fardello intollerabile e, allo stesso tempo, un dono di inestimabile valore. King esamina genuinamente le persone che filma mentre si sforzano di vivere in accordo alle proprie scelte e non è mai critico riguardo le loro decisioni finali (perché il giudizio, in un mondo privo di un grande ordine delle cose, ha significato solo per il giudice). I suoi documentari e i suoi drammi evitano ideologie e polemiche, e tendono ad essere popolati da individui che rifiutano ogni categorizzazione.
Sin dall’inizio, la pacata intimità all’interno della quale King ha ripreso i propri soggetti ha generato un disagio diffuso in molti spettatori e in alcuni di coloro che gli avevano commissionato il lavoro. Il rigettare scenari superficiali fatti di vittime e carnefici, buoni e cattivi, l’ha trasformato, in certi ambienti, in un paria. Allo stesso tempo, non è mai stato un iconoclasta per il puro gusto di esserlo: nei suoi film le istituzioni hanno lo stesso valore degli individui. Il suo spirito imprenditoriale l’ha spinto a dedicare anni della propria vita alla creazione e allo sviluppo collettivo di un cinema nazionale. Ciò che lo distingue da coloro che non hanno ottenuto altrettanti riconoscimenti ha forse a che fare con la cautela con la quale ha intrapreso il proprio lavoro: King è un pensatore e un ricercatore che si è sempre documentato in maniera estremamente approfondita prima di dedicarsi a un film. La sua riflessività, unita alla natura elusiva del cinema-vérité e all’estetica dell’“inventalo mentre lo fai” che ha imposto le proprie necessità su molto cinema canadese, ha dato vita a film tanto vari e stimolanti quanto le epoche in cui vennero realizzati.
Le origini dell’approccio contemplativo di King sono, come le origini di molto altro nella cultura canadese, almeno in parte di natura geografiche. Nativo di Vancouver, era, come vuole lo stereotipo, di carattere rilassato. Questo cliché legato alla natura della gente di Vancouver ha a che fare con la loro poco canadese assenza di “tribolazione ambientale”. Non siamo nella tundra che gela le ossa, nell’afosa foresta infestata di zanzare, né nella prateria battuta dal vento. Mentre il resto del Canada sopporta stoicamente la lotta contro gli elementi che fonda la nazione, Vancouver è riscaldata dalle correnti del Pacifico che fanno sbocciare i tulipani a febbraio. L’immaginazione della popolazione di Vancouver – una città immacolata circondata da picchi innevati – assomiglia senza imbarazzo alla Shangri-La hollywoodiana. E, come Shangri-La, la Vancouver dell’infanzia di King esisteva in splendido isolamento, collegata al centro del Canada da un viaggio in treno di quattro giorni, uno sgangherato servizio aereo e, quando possibile, un reticolo di strade di campagna lungo tremila miglia.
Nato nei primi mesi della Grande Depressione, Allan Winton è cresciuto in un ambiente pre-lapsariano nel quale la minaccia di essere scacciati dall’Eden non era sempre ben presente nella mente di tutti. Come ricorda King, nella borghese Vancouver le conseguenze del fallimento potevano essere misurate da confini fisici marcati:
“Quando arrivò la depressione crollammo, spostandoci quasi ogni anno ma senza mai oltrepassare la linea immaginaria segnata da Cambie Street a est di Kerrisdale, e tanto meno quella di Main Street – che a ripensarci era quella di un ghetto. A est della Main viveva la classe operaia”.
La caduta dei Winton fu più dura e dolorosa di tante altre. Il padre di Allan, un commesso viaggiatore, era un alcolista il cui vizio gli costò prima il lavoro e poi, dopo un periodo di grandi turbamenti, il matrimonio. Il piccolo Allan e sua sorella furono costretti a vivere con altre famiglie mentre la madre combatteva la propria lotta emotiva e finanziaria. Più tardi si risposò e, come di consueto all’epoca, i figli presero il nome del nuovo padre: da cui Allan Winton King, un nome al quale il regista ha sempre guardato con certa ambivalenza. Benché King ebbe solo un’altra occasione di vedere il padre naturale, i suoi film furono spesso popolati da figure paterne e anziani vecchi e dimenticati.
Nonostante i traumi dell’infanzia, King era un bravo studente, in particolare con gli insegnanti che credevano in lui, e non mancò di assumersi responsabilità in giovane età. A quindici anni cominciò a lavorare d’estate nei campi di disboscamento e venne incaricato da uomini molto più vecchi di lui di fare il rappresentante sindacale. Molti dei suoi amici erano altrettanto capaci e volenterosi, spesso con inclinazioni artistiche. Uno di questi, Stan Fox, lo spinse a intraprendere l’attività di impresario presso la Vancouver Film Society e, dopo svariate vicissitudini, a diventare lui stesso filmmaker presso la neonata stazione televisiva della CBC, la CBUT.
Skidrow (1956), il primo film di King, era il ritratto di uomini derelitti e senza fissa dimora. Era anche uno dei primi contributi all’onda di documentari realizzati per la televisione che in seguito sarebbe stata chiamata “la scuola della costa occidentale”. Ma King non pensava di unirsi a un movimento: gli interessava portare a termine un percorso cominciato in gioventù attraversando il temuto confine al di là dei binari. Il materiale che trovò in quei luoghi, come l’ha descritto Robert Russell, “è il ritratto pienamente riuscito di un mondo senza tempo”. Skidrow era anche, in maniera personale, un esperimento con le tecniche del cinema delle origini.
“Ci sono parti del film che ricordano Chaplin: la festa nel dormitorio, il mendicante per strada, la rissa nel vicolo tra un ubriaco e uno messo ancora peggio di lui. Tutte queste illustrazioni, mute ma eloquenti, degli elementi della vita fanno ricorso alle tecniche del cinema muto: la macchina da presa è statica, inflessibile di fronte all’azione. Allan King stava cominciando dal principio”.
Il film è caratterizzato da una tensione dinamica tra due maniere distinte di presentare il proprio oggetto d’indagine. In gran parte consiste di immagini commentate dalla voce di Arthur Hives che legge il testo di Ben Maartman. Oltre a essere l’assistente sociale che ha condotto King lungo le strade dei derelitti, Maartman era anche uno scrittore affermato. Il linguaggio di cui si serve è preso in prestito dalla narrativa, se non addirittura dal teatro, della Grande Depressione. È un urlo di disperazione che si identifica, accettandolo, con il significato di essere poveri e, agli occhi del mondo rispettabile, invisibili. Come le voci narranti che hanno caratterizzato il documentario per un quarto di secolo, questa elegia domina e informa le immagini che accompagna.
Skidrow comprende anche brevi interviste in presa diretta con gli uomini che costituiscono il soggetto del film. L’utilizzo del suono sincronizzato nel documentario non è cominciato con Skidrow: i cinegiornali, sin dalla fine degli anni ’20, includevano spesso brevi segmenti di parlato in presa diretta, spesso a bocca di celebrità o capi di Stato. Nel 1956, grazie alle nuove tecnologie impiegate al servizio dei notiziari televisivi, l’uso del suono in presa diretta era diventato più diffuso e democratico. Skidrow partecipava di questa nuova tendenza, atta a dimostrare che tutti hanno una voce. Ogni volta che uno degli uomini parla è una scossa, un cambio repentino nel tono del film. Le loro parole sono molto più semplici di quelle utilizzate dalla narrazione letteraria, il loro parlato più dolce del tono catastrofico di Maartman. Né rabbiosi né indignati, rispondono in maniera pacata alle domande riguardanti la loro vita quotidiana. Ancora più sorprendente è il modo in cui descrivono, benché sotto suggerimento, le loro vite precedenti: non più vittime del destino, tanto meno vagabondi da cartone animato, sono solo uomini che guardano l’intervistatore negli occhi. Non è cinema-vérité, non ancora. Ma questi monologhi in macchina sono più che semplici estratti. I segmenti di Skidrow realizzati con il suono diretto dimostrano le potenzialità insite nel lasciare che la gente racconti le proprie storie con parole proprie, e danno un’idea dell’effetto profondo che la tecnica avrebbe avuto nel lavoro successivo di King, e nel documentario in generale.
Con la consapevolezza che il proprio padre potesse trovarsi in una di quelle strade, King realizza un lavoro che non si concentra sulle miserie degli alcolizzati ma sul fatto che hanno avuto una scelta. Anche gli altri quattro film realizzati dal regista per la CBUT sono a loro modo autobiografici e notevolmente franchi nel sostenere che i problemi dei soggetti ripresi non sono altro che la conseguenza delle loro azioni. The Yukoners (1956), il suo secondo film, comincia più o meno alla stessa maniera del più noto film di Colin Low per la NFB, City of Gold (1957). Entrambi ci introducono a ciò che è rimasto negli anni ’50 della corsa all’oro in Klondike nel 1897. Ma mentre la produzione NFB stacca rapidamente su immagini degli scatenati giorni che furono, King decide di restare con gli attempati cercatori, mostrandoli per quello che sono, uomini anziani come tanti e non più parte del mito del Klondike. Essi sono rimasti lì, approfittando delle risorse sempre più scarse di oro rimaste nelle loro piccole concessioni. Un moderno stabilimento minerario è sorto tutt’intorno agli anziani che vivono ancora in abitazioni primitive e conservano la propria indipendenza finché, inevitabilmente, non vengono costretti a trasferirsi nella casa di riposo di Dawson City per il tempo che rimane loro da vivere.
Portrait of a Harbour e Gyppo Loggers (entrambi del 1957) estendono l’approccio ai campi di legna nei pressi di Vancouver familiari al regista, benché nessuno dei due possieda la complessità di The Pemberton Valley (1958), l’ultimo dei film girati da King per la CBUT. Per l’occasione, King raggiunse i meravigliosi scenari dell’allora isolata Columbia Britannica. Il suo piano era quello di girare una versione personale di Farrebique (1946) di Georges Rouquier, la storia del prolungato legame tra una famiglia e la propria terra. Le immagini pastorali di Jack Long e le musiche di Robert Turner concorrono a raggiungere l’obiettivo; lo sguardo di King e la narrazione di George Robertson procedono in un’altra direzione. Lontano dalla “visione statica di una valle immota”, come Guy Coté l’avrebbe poi definito, il film ha un sottofondo cupo e spigoloso. Scopriamo che il contadino che King ha deciso di riprendere è di recente immigrazione e ha avuto molta difficoltà a farsi accettare dagli altri abitanti del luogo. La sua famiglia è composta da figli adottivi, molti dei quali si sforzano di adattarsi alla vita della fattoria, e uno dei quali ha un passato particolarmente oscuro alle spalle. Il tempo di osservare la famiglia che pianta le patate e il film stacca improvvisamente sulla vicina riserva indiana, un luogo che ha davvero poco a che fare con l’idea che si può avere di Shangri-La. Gli abitanti accettano stoicamente la propria disoccupazione, il loro status di cittadini di seconda classe e i bambini sangue misto che i bianchi locali si lasciano alle spalle. Nel Victoria Day, gli uomini si lanciano in una folle corsa a cavallo lungo le strade fangose della riserva. Questa parte del film si concentra su un giovane nativo convinto a lasciarsi alle spalle la propria comunità, priva di prospettive, per farsi una vita autonoma.
King, a questo punto, giunse alla stessa conclusione che riguardava la propria vita. Nel 1958, diede le dimissioni dalla CBUT, lasciando l’ultimo lavoro salariato che avrebbe mai avuto. Dopo due anni e cinque film si era stancato della burocrazia della rete e non aveva intenzione di passare il resto della carriera a girare documentari sulla Columbia Britannica. Ma soprattutto, ora aveva un posto in cui andare. La sorella della sua prima moglie e suo marito, il pittore Rolph Blakstad, facevano parte della comunità di espatriati a Ibiza. L’isola spagnola divenne il “Paradiso lontano da casa” di King. Era più calda di Vancouver, sia per il clima che per l’indole della gente, e gli artisti che vi incontrò suscitarono in lui un interesse duraturo nelle avanguardie e nelle personalità creative. Gli fornirono anche una seconda educazione.
“In quel periodo compresi chi fossi e fu un’inestimabile ricompensa. Tutto quel parlare, bere e far parte di un circo culturale multinazionale mi permise di comprendere a fondo le differenze tra gli ambienti in cui io e i miei amici eravamo cresciuti, e in che modo ci avevano formato dando a ciascuno una prospettiva propria. Il premio per aver superato il dolore dell’adolescenza, nel terrore di abbandonare la dipendenza, è la maniera in cui si forma la propria identità e tutti i valori che essa porta con sé. È la sorgente della voce di ciascuno: senza di essa non siamo in grado di parlare”.
Il piano di King era quello di mantenersi a Ibiza realizzando film per il programma di documentari della CBC, “Close-up”. Quando il governo di Franco, oscuro dominatore di quest’isola assolata, gli rese difficile lavorare lì stabilì una seconda base europea a Londra. Con la Allan King Associates filmò le tribù berbere nelle montagne del Marocco e riprese di Saigon tra le due guerre con la Francia e gli Stati Uniti. Con Blakstad, che aveva istruito come operatore, viaggiò per il mondo inviando in Canada una serie di brevi documentari. Where Will They Go? (1959) mostrava gli internati di un campo di rifugiati in Austria; Bullfight (1960) controbatteva agli echi romantici dell’hemingwayano Morte nel pomeriggio mostrando il triste e brutale assassinio di animali prigionieri.
Tra i film girati da King per “Close-up”, quello che riscosse più successo fu Rickshaw (1960): girato nelle strade di Calcutta, il film presenta un esausto portatore di risciò di mezz’età giunto agli ultimi giorni della sua professione. La narrazione di George Robertson ci spiega che l’uomo non ha mai posseduto altro che il minimo indispensabile per poter proseguire la propria incessante corsa a piedi nudi per le strade bollenti della città, e che ha passato sei anni lontano dalla propria famiglia. Quando lo incontriamo, sta per essere finalmente liberato dalla routine mortale del proprio lavoro, ma solo al prezzo di passare il testimone al figlio adolescente. Giunto alla stazione, costui corre dietro il padre per un’intera giornata e poi passa alla guida per trasportarlo nell’ultima corsa col risciò. La corsa finisce alla stazione, da cui il vecchio parte per tornare a casa, senza niente da portare con sé di tutti gli anni trascorsi a Calcutta.
Rickshaw è talmente disperato che si può essere tentati di rifuggire le sue implicazioni considerandolo polemico o allegorico. Ma nessuna delle due letture funziona. Mai, la narrazione che accompagna le immagini chiede giustizia per i guidatori di risciò, incolpa qualcuno per le condizioni in cui è costretto a vivere l’uomo o offre soluzioni su come la sua vita potrebbe essere migliorata. L’irrefutabile realtà di ciò che mostra la macchina da presa ci impedisce di guardare oltre l’esistenza di quest’uomo in questo luogo particolare. King ha trovato questo guidatore di risciò e ne racconta la storia. Sostenere che ciò che vediamo è frutto di argomentazione retorica o una sorta di parabola significa indebolire la forza della poesia esistenziale del film.
“Close-up” chiese a King di dirigere anche una serie di interviste con alcune tra le personalità artistiche e politiche più rilevanti dell’epoca: Orson Welles, Anthony Eden, Nehru e Peter Sellers tra i tanti. I suoi ritratti di creativi – l’attore Christopher Plummer, lo scultore Joseph Drenters, la ballerina Lynn Seymour –, spinsero la Allan King Associates verso un accordo di coproduzione con la CBC, la BBC, la National Education Television (ora PBS) e la Bayerische Rundfunk per realizzare dodici documentari di un’ora intitolati “Creative Persons” (1968-69).
Negli anni ’60, il ritratto documentario non era solo l’arma migliore di King ma una parte rilevante dell’elaborazione teorica riguardo i film che faceva. Forse aveva avuto bisogno di vedere il mondo nel contesto più ampio possibile, ma stava rapidamente arrivando alla conclusione che il modo in cui intendeva osservarlo in quanto regista di documentari era ad altezza di sguardo dei singoli soggetti. Nel 1966 scrisse:
“Il mio unico interesse in quanto filmmaker è quello di catturare la personalità dell’individuo che riprendo. Benché le idee, le questioni politiche e sociali mi interessino, mi fido poco dell’analisi intellettuale e allo stesso tempo non riesco a rinunciarvi. Ogni posizione mi pare vulnerabile e dunque inaccettabile se presa in maniera risoluta e totalizzante… Filosoficamente mi sento imbrigliato in una sorta di hegelismo: non è possibile comprendere la verità senza conoscere tutta la realtà e ciò non è umanamente possibile. Eppure continuo a ricercarla”.
Questo dilemma non fu mai più evidente che in In a Matter of Pride (1961), uno dei film più intensi realizzati da King per “Close-up” nei primi anni ’60. La verità che intendeva conoscere riguardava l’esperienza della disoccupazione nel suo ricco Paese. King scelse di concentrare l’attenzione su una coppia, gli Exelby, di Hamilton. Il marito, un commerciante, aveva perso il lavoro qualche mese prima. La vita borghese della famiglia si era improvvisamente disintegrata, e scivolava lentamente verso la disperazione. Gran parte dell’effetto è ottenuto per mezzo di lunghe interviste, due delle quali con la signora Exelby, riprese in un primo piano stretto, il trucco intatto e la collana di perle adagiata intorno al collo. In entrambe le interviste la donna piange (così come il marito, quasi impercettibilmente, nel corso della sua). Queste pubbliche esposizioni di emozione diedero vita a un dibattito interno alla CBC riguardo il fatto se il programma dovesse venire mandato in onda o meno. Quando fu trasmesso, provocò una forte riposta da parte del pubblico, articoli sulla stampa e una sorta di caccia agli Exelby. Il clamore suscitato raggiunse perfino il Parlamento, dove il ministro del lavoro sostenne che King aveva creato ad arte le sofferenze della famiglia – pagando una quota ai suoi soggetti –, “comprandone” le lacrime. La CBC, forte di appoggi governativi, rifiutò di controbattere alle accuse e venne ulteriormente intimidita quando King e i produttori del film furono convocati a Ottawa per un severo rimprovero.
Non particolarmente umiliato dalla reprimenda, King si mosse in una direzione completamente nuova. Sin dal tempo dei documentari per la CBUT aveva improvvisato brevi messe in scena nei suoi lavori. Già in Skidrow aveva fatto “provare” il materiale delle interviste agli uomini che riprendeva e in Rickshaw aveva chiesto ai protagonisti di “inscenare” quegli aspetti della loro vita quotidiana di cui aveva bisogno per il film. Ora compì un passo ulteriore verso la drammatizzazione con un film di trenta minuti intitolato Dreams (1962), realizzato per la serie della CBC “Quest”. Il film parla di una giovane coppia che convive a Toronto. Lui è un aspirante pittore che diventa sempre più irrequieto e lei è preoccupata che lui se ne voglia andare. Fu all’interno di questo contesto che King mise alla prova i confini tra il documentario e il dramma.
“La coppia interpretava se stessa, non c’erano interviste ma l’azione era diretta, come in Rickshaw. Avevo scoperto che lui stava per lasciarla ma non gliel’aveva ancora detto e che lei lo sapeva ma non gliel’aveva fatto capire. Ho passato una giornata con ciascuno di loro, separatamente, esplorando i loro sentimenti riguardo l’evento atteso, invitandoli a ‘recitare la scena’, per così dire. È documentario? È dramma? Questi termini diventano artificiosi e persino insignificanti se messi sotto pressione”.
Qualche anno più tardi, nel 1965, King disse: “Vorrei veder sparire la distinzione tra documentario e dramma. Sto pensando a un film che si serva del mezzo cinematografico in una maniera più creativa, in grado di veicolare un tipo di esperienza umana più intensa. E non mi pongo il problema se la sua destinazione debba essere il cinema o la televisione”.
I tempi erano maturi per Warrendale e gli altri actuality drama che l’avrebbero fatto conoscere anche fuori dai confini nazionali.
(originariamente pubblicato in Allan King: Filmmaker, a cura di Seth Feldman, in occasione della retrospettiva al Toronto International Film Festival nel 2002; traduzione di Alessandro Stellino)