Un film programmatico, ma ispirato. Dunque riuscito. Quantomeno nel suo complesso, perché a tratti è certamente un po’ noiosa la programmaticità in questione. Dal titolo – i due punti esclamativi, all’inizio e alla fine, uno diritto e uno rovesciato; ai titoli di coda che scorrono sia a sinistra che a destra dello schermo, un segmento verso l’alto, l’altro verso il basso – passando per il “mezzo” dei due estremi (antipodi), non si scherza: The Big Island, cioè le Hawai (Usa) coincidono, dall’altra parte della Terra, con una località del Botswana (Africa). E così via. Si susseguono il lago Baikal (Russia), la Cina, le distese cilene (Capo Horn), la Spagna, ecc. Dalla desolazione maestosa di paesaggi rarefatti, alla vitalità degli abitanti e ai suoi incredibili animali a portata di mano dell’Africa; dalle poche figure umane sperdute (Cile) all’anonimato della moltitudine (la Cina); dal dominio della natura sull’uomo nella sua piccolezza all’uomo che pare aver ormai mangiato, o sta mangiando, non solo la natura ma anche forse i suoi spazi abitativi tradizionali; dai pochi uomini senza donne (l’Argentina) alla poche donne senza uomini (la Russia). Fino agli antipodi più evidenti: quello di un viaggio contemporaneo in ambienti rappresentativi dei quattro elementi naturali, l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco. Ma è forse qui, nell’antitesi che fa da architettura all’intero film (il desiderio d’infanzia carroliano di arrivare nel punto esatto dell’altra metà della Terra, ne è infatti la rivestitura), che, se si pone attenzione, abbiamo una contraddizione, una rottura fondamentale della meccanicità apparente.
Al contrario di come solitamente si fa (sia nel cinema d’autore che d’intrattenimento), non si propone infatti una contrapposizione schematica degli elementi. Il regista ha scelto di porsi tra i due, negli interstizi, nell’ambiguità dei confini: non si filma il fuoco come incendio, ma come lava, che poi solidificata diventa pietra, basalto (e il regista in alcune riprese riesce a far coincidere i due livelli, quello della materia immobile e quello del suo movimento, della trasformazione); non rappresenta il mare filmato dal mare, o il lago filmato dal lago, ma dall’alto della terra (di una montagna) si filma il lago Baikal, dalla spiaggia si filma il mare; al massimo, in questo film immerso tra fisica e metafisica, da una latitudine/altitudine imprecisata – astratta – si filmano imbarcazioni sull’acqua (lago, mare?), in un atmosfera indefinita, limbica quasi. Ed è chiaro che le polifonie simboliche a questo punto, sempre nell’apparente meccanicità, si fanno molteplici: ad esempio il magma della lava, è il prima della Creazione; il basalto è il dopo la creazione; e di quale creazione si parla? Quella dell’uomo (l’artigiano, l’artista) o quella di un istanza suprema a noi invisibile? E i due movimenti filmati insieme sono sinonimo della necessità di amare gli opposti (quello che a noi è opposto) o della capacità divina di guardare assieme tutti gli opposti, tutti i movimenti? Ancora: in questo film segnato dalla fisica della metafisica (e viceversa, of course), la lava divenuta basalto pare quasi scultorea, i suoi disegni, i suoi movimenti sono infiniti malgrado la sua immobilità, il suo arresto nel tempo; ma un gigantesco capodoglio arenato, morto sulla spiaggia, quindi immobile, nei suoi movimenti materici, costitutivi, è profondamente sensuale quanto la lava in movimento e quanto il basalto congelato nel tempo. La prima, tagliata, verrà usata per l’alimentazione e altro, l’altra resterà nel tempo, per la contemplazione immobile. Abbiamo appena parlato di Divinità, quindi di monoteismo: ma qui lo sguardo pare anche quello della fusione in un tutto, dove il biologico e il minerale, la vita e la morte, confluiscono: la visione è chiaramente panteistica. Ancora ambiguità, quindi.
In realtà si avverte, nel film, il desiderio di essere in tutti i luoghi contemporaneamente, di gioire degli opposti. Un desiderio umanistico di ubiquità, l’unica cosa qui univoca. L’uomo non può farlo. Fatto salvo con la (Creazione) cinematografica. Al fine di fissare, salvare, gli ultimi lembi di vera umanità, per un Noè-Kossakovskij: una famiglia africana che insegna alla loro bambina a non aver paura del vicino branco di elefanti, due paesani che sanno ancora ascoltare (riconoscere) i suoni animali, una famiglia in vacanza in una roulotte tra le rocce di basalto hawaiane. Pochi uomini sì, ma buoni.