Era atteso al banco di prova, Steve McQueen, dopo l’acclamato Hunger. Ma in tanti si chiedevano come mai Cannes si fosse lasciata scappare un autore che aveva contribuito a lanciare. La risposta potrebbe essere la prima che viene in mente, la più semplice e immediata: perché non hanno trovato Shame all’altezza.
Il coefficiente di scandalo inciso nelle quattro righe di trama che circolavano in rete da tempo era tra i più alti di quest’anno a Venezia: la storia di un uomo ossessionato dal sesso solleticava i palati pruriginosi anche in virtù del fatto che il protagonista non fosse un nerd ma un attraente impiegato, ben vestito e ben dotato, dallo sguardo seducente e il sorriso aperto. Uno che potrebbe avere tutto, insomma, ma a cui invece interessa una sola cosa. In pochi altri film l’amplesso si identifica altrettanto esplicitamente con l’impulso autodistruttivo, la cupio dissolvi, e lo sguardo di McQueen è impietoso, la fotografia lucidamente cupa nel ridurre a una dimensione puramente fisica, materica la sua alienazione: la pornografia è uno specchio deforme in cui si riflettono la superficialità delle relazioni, l’abiezione di desideri che si nutrono sempre e comunque di egoismo e autoaffermazione. I precedenti da videoartista del regista impongono una messa in scena di un’essenzialità ricercata ed esibita, tesa a far percepire costantemente il contorno delle cose, i margini, le pareti, gli ostacoli, i divisori. Il monadismo dell’individuo contemporaneo, richiuso su se stesso e le proprie idiosincrasie, non lascia spazio a comunicazioni più profonde e il linguaggio diventa esso stesso forma (pre)scritta di interrelazione (indicativo in questo senso lo scambio di battute con il cameriere che illustra il menù del giorno).
Il problema è che l’assunto si fa troppo presto programmatico: la vera pornografia è quella dei sentimenti che rendono l’uomo fragile e indifeso, la vergogna di cui parla il titolo sembra essere non tanto quella del protagonista, consapevole della propria ossessione ma non eccessivamente turbato quando altri ne vengono a conoscenza, quanto quella provata per tutti coloro che non sanno controllare le proprie emozioni. Evidente come il personaggio della sorella dalle tendenze suicide, costituisca in questo senso il grimaldello che mette a nudo le fratture interiori (o sarebbe meglio dire cicatrici? del suo passato non si sa niente o quasi) del protagonista: a parole può anche sputarle in faccia tutto il proprio disgusto per la debolezza che dimostra nella vita di tutti i giorni e disprezzare il suo desiderio di affetto ma finisce per essere sopraffatto dalla compassione, dalla vergogna repressa per la propria consistenza di uomo a una dimensione.
Si vorrebbe che l’assunto venisse portato fino alle estreme conseguenze e invece si assiste all’ennesimo viaggio nell’abiezione, sprofondo nel sudiciume della propria disumanità, verso l’annichilimento fisico e l’abbrutimento del desiderio. Come se non bastasse, un ricattatorio finale sembra lasciar intendere che c’è sempre tempo per fare marcia indietro e ravvedersi. Nella più prevedibile delle ciclicità narrative una delle prime “vittime” del “carnefice” si ripresenta al suo cospetto: forse rimpiangendo di essersi sottratta alle grinfie del diavolo tentatore la prima volta, cerca a sua volta di sedurlo. Ma il nero che precede i titoli di coda lascia il dubbio sul futuro di entrambi.
L’Abel Ferrara dei tempi d’oro non le avrebbe dato scampo. McQueen, forse troppo presto condotto all’empireo da una critica ansiosa di idolatrare nuove divinità, sottrae al suo destino un uomo che desidera essere salvato ma non sa come dirlo.