Da tempi non sospetti Mark Lewis lavora a una ridefinizione dei confini tra cinema e arte che decostruisce forme e linguaggi con gesti di disarmante semplicità. L’artista canadese ha spesso incluso nei suoi lavori riferimenti diretti alla storia del cinema (ha messo letteralmente sottosopra il celebre piano-sequenza inziale di Touch of Evil ed esplorato due progetti di “film impossibili”: la trasposizione in immagini del Capitale di Marx vagheggiata da Ejzenstein e il tentativo fallito che Samuel Goldwin fece per coinvolgere Freud nella sceneggiatura di un dramma di coppia) e ha tematizzato figure linguistiche apparentemente marginali, ma illuminanti per inquadrare criticamente le mutazioni storiche del dispositivo, come in Backstory, presentato alla scorsa Biennale di Venezia, in cui i membri di una famiglia di tecnici hollywoodiani specializzati in trasparenti parlano della loro saga famigliare e professionale sullo sfondo delle loro stesse obsolescenti imprese.
Nel suo complesso l’opera di Lewis si è però definita gradualmente come un repertorio minimalista che rigenera criticamente la forma originaria della veduta Lumière. Film senza sonoro, la cui durata raramente supera i 5-10 minuti, costruiti su lenti e studiati movimenti di macchina o zoom oppure su accadimenti minimi che hanno luogo nell’inquadratura fissa. La dilatazione temporale e spaziale stimola l’attenzione per i dettagli minuti e la pulizia formale non scade mai nell’asetticità ‘strutturalista’, liberando invece il campo alle sottili emozioni che sorgono da un’esplorazione paziente e amorosa degli spazi. Che siano maestosi scenari naturali o dimessi quadri metropolitani, i film di Lewis ci lasciano credere che la funzione di “redenzione della realtà fisica” che Siegfried Kracauer assegnava al cinema come specificità estetica e compito storico possa ancora reggere la sfida della contemporaneità.
Interessanti sono anche i sottili paradossi con cui Lewis si approccia tanto al mondo del cinema sul fronte produttivo quanto a quello dell’arte contemporanea dal punto di vista della fruizione. Se infatti da un lato Lewis sfrutta le attrezzature e i formati ‘pesanti’ del cinema professionale per realizzare qualcosa di estremamente leggero, agli antipodi di ciò che è il cinema oggi e soprattutto inassimilabile ai canoni istituzionali della narratività, dall’altro si smarca assolutamente dalle stereotipie della videoinstallazione (installazioni site-specific, isolamento e oscurità delle tipiche black box), che spesso non fanno che riprodurre nell’ambiente della galleria un surrogato della sala tradizionale, “un ready-made cinematografico”. Preferisce piuttosto presentare i suoi quadri su una semplice parete, in dimensioni abbastanza ridotte, assimilando così il film a “un dipinto o una fotografia che ha il suo status e la sua autonomia”. Questa minimizzazione dei valori cultuali connessi al dispositivo cinematografico classico permette a Lewis di proiettare le sue “moving pictures” in una dimensione archeologica, un’apertura del cinema alla storia delle arti visive che è una riflessione genealogica e un dialogo rigenerante.
La premessa teorica è necessaria non solo per inquadrare una delle figure più significative fra coloro che si muovono nell’ambito del cosiddetto “post-cinema”, ma anche per accogliere la peculiarità dell’ultima opera di Lewis, presentata ieri in apertura della sezione corti di Orizzonti. Black Mirror at the National Gallery si presenta infatti come una sintesi problematica del percorso finora descritto. Qui il dispositivo, negato nella pratica installativa (mettiamo per un attimo tra parentesi il fatto che ci troviamo nel più classico dei festival cinematografici), riemerge prepotentemente come fulcro e vettore della rappresentazione mentre la forma del film-tableau teorizzata dall’artista si confronta direttamente con il suo archetipo pittorico. In questo travelling di otto minuti assistiamo infatti all’invasione di un paio di sale della National Gallery (non a caso si tratta di quelle dedicate alla pittura fiamminga di paesaggio, in cui la tematica ottica fornisce sostanza e struttura alle opere come mai altrove) da parte di un complesso e inquietante macchinario che connette attraverso un carrello e dei bracci meccanici la videocamera ad uno specchio nero, strumento ottico utilizzato proprio dai pittori di paesaggio del XVIII° – XIX° secolo per condensare i valori tonali dei soggetti sulla superficie specchiante, ottenendo così un surrogato pseudo-pittorico da cui partire per elaborare il dipinto. L’immagine video rende così il riflesso dei quadri affissi alle pareti, innescando una vibrante coreografia tra la frontalità dell’inquadratura e l’obliquità dello specchio, un confronto che assume contorni perturbanti quando per qualche istante gli assi si allineano e la camera-Medusa si rivela nel tondo scuro dello specchio. La ripresa si chiude (la breve e tesa durata dei film di Lewis si esaurisce spesso in un punto di condensazione del senso, che può far pensare al fulmen in clausula dell’epigramma latino) su un piccolo dipinto di Hendik Avercamp, tondo come lo specchio: una scena invernale con pattinatori che, nella sua umile complessità, ricorda insieme le inquadrature dello stesso Lewis e un vetro da proiezione per lanterna magica.
La mise-en-abyme vertiginosa di questa macchina del tempo ottica porta all’estremo il tenore metalinguistico del lavoro di Lewis senza perdere l’elementare nitore dei suoi gesti mostrativi, mettendolo piuttosto in gioco nel confronto serrato tra vecchie e nuove tecnologie di visione, tra le radici ormai irrigidite, museificate dello sguardo moderno e le risorse di cui disponiamo per calibrare il nostro sguardo sul presente e oltre.
Le citazioni di Mark Lewis sono tratte dall’intervista realizzata da Radio Papesse (www.radiopapesse.org) in occasione della personale dell’artista presso il Museo Marino Marini di Firenze (27/10 – 28/11/2009)