Vi sono stati, in questo festival, bei film cugini, pur nella loro diversità. L’israeliano Hahithalfut (The Exchange) di Eran Kolirin, presentato in Concorso, e L’Oiseau di Yves Caumon (un po’ nascosto in Orizzonti), hanno vari punti di contatto. Il più interessante ci sembra il loro essere film visivi, dai dialoghi rarefatti, ma in cui il sonoro riveste comunque un ruolo di rilievo. Film di suoni, e in alcuni momenti – importanti – atonali. Far sentire improvvisamente l’assenza – del suono e, in estensione, del mondo, degli altri. Il vuoto (della vita), farlo percepire nell’impalpabilità. Sono anche due film su una rinascita, su un ritorno alla verità dell’infanzia, alla dimensione primigenia. Partendo dalla ripetitività della vita quotidiana, dal minimalismo della narrazione, mediante un montaggio leggero come una piuma.
La vicenda di Anne (il bel viso, sensibile ed interiorizzato, di Sandrine Kiberlain) racconta la solitudine mediante una successione di frammenti di monotona quotidianità montati in modo aereo, creano un bel “stridore” in una storia claustrofobica. La donna vive sola in casa, alternandosi tra camera da letto e lavoro: ma nell’appartamento si odono passi notturni. Accende la luce: nulla è visibile. Questa presenza costituisce la suspense della prima parte, in cui il regista gioca con finezza, a tratti con vera ispirazione, su elementi potenziali da cinema fantastico – quello che suggeriva invece di mostrare – inseriti con sapienza all’interno di una matrice realistica, naturalistica. Per ovviare alla persistenza di questo “tarlo” – per cancellarlo – Anne finisce per inventarsi un rumore più grande: delle pompe fatte in casa dal rumore assordante, simile a quello che trova ogni giorno al lavoro. Suono (grande) schiaccia suono (piccolo), a rimarcare ulteriormente l’(auto)prigionia circolare nell’alienazione, nell’ossessività. Il processo capitalistico-industriale aliena e schiavizza, ma è rassicurante. Evacua l’angoscia. Perché quest’ultima, sotterranea, è pervasiva più che mai. Meglio allora non ascoltare il visitatore, meglio cioè non indagare la propria interiorità, le proprie inquietudini, il proprio inconscio. I rumori però continuano. La presenza resta tale.
Seguendo l’itinerario di re-iniziazione alla vita della protagonista, il regista rivela un’arte delle micro-sequenze: il viso immerso nell’oscurità, Anne cammina in un bosco di notte. I capelli biondi, grazie alla luce lunare, assumono riflessi dorati: come una Dea avanza e osserva: gli alberi e la natura hanno una luce magica, brillano nella notte. Si siede vicino a un muro in pietre dalle sembianze medioevali, proprio in quel momento pare d’intravedere il mondo contemporaneo, come a suggerire che la fantasia, il fantastico, sono dietro l’angolo, e viceversa. Ci si abbandona ad immaginare un vero film fantastico, girato in questa maniera, semplice e raffinata assieme. Forse, questo film possibile ha un antenato. Infatti, come in una sorta di sonnambulismo, improvvisamente vediamo Anne al cinema. Sono sequenze di un vecchio film giapponese in costume. Immagini di un capolavoro, Vita di O-Haru, donna galante di Kenji Mizoguchi. Immesse in questo contesto, sono immagini un po’ fantomatiche. È l’itinerario di una giovane donna che si perde nell’abbandonarsi al sogno di una storia d’amore al di là delle caste: nella dura realtà, ritrovatasi incinta, viene venduta dal padre, divenendo una prostituta, cioè una cortigiana. Abbiamo parlato di arte delle micro-sequenze, di dettagli importanti, di una narrazione – una suspense – ridotta ai minimi termini: significative le corrispondenze con la regia di Mizoguchi.
In realtà, Anne è prigioniera della paura di vivere sensazioni forti, come quelle legate all’amore e alle sofferenze che comporta. “Come siete dura”, dice il suo potenziale pretendente. Se l’angoscia è evacuata, sono altrettanto evacuati gli uomini: padri, fratelli, amici, colleghi maschi non se ne vedono, tranne il pretendente, subito sospettato di voler usare il suo potere su di lei e quindi subito evacuato anche lui. Intanto, Anne continua la caccia al visitatore e lo identifica: “lui” si nasconde all’interno della parete. Prende il martello e fa un bel buco nella muro, là dove giungono i rumori. Improvviso vuoto di suono. Atonalità. La breccia è fatta e nulla sarà più come prima: il visitatore, timidamente, esce dal buco. L’uccello svolazza nell’appartamento dove, ben presto, si ambienterà. L’elemento del mondo naturale si è svelato. Penetrato nel mondo di Anne, dal quel momento il registro filmico diviene, da sottilmente onirico, esplicitamente naturalistico.
Le sequenze diurne dominano infine su quelle notturne. E pian piano, il visitatore scompare e ricompare, ad intermittenza. Con piccoli atti quotidiani, Anne esce dalla dimensione ossessiva in cui vive. L’esterno torna con forza, torna la “meravigliosa” banalità della luce del giorno. Torna alla natura, grazie al messaggero. Scivola, si perde in un bosco. Penetrando in una volta boscosa assiste al rapporto amoroso di una giovane coppia che si abbandona al piacere, una scena che rimane per noi, delicatamente, del tutto fuori campo, mentre Anne sgrana gli occhi. Brevemente, si trasforma in guardona, ma il suo è lo sguardo vergine, ritrovato: nel caso specifico verso il sesso amoroso, verso la sua unicità. Verso il sogno di O-Haru. Noi, inversamente, vedremmo solo sesso o, al meglio, passione. Questa breve scena, quest’alcova naturale, è il rovescio dell’intero segmento iniziale. Quando la sua alcova (potenziale) nel mondo edificato, civilizzato, era solo una catacomba. Ritrovare la dimensione naturale, primigenia, nella semplicità del quotidiano più Naturale.
Una volta tornata davanti casa, del suo piccolo visitatore, trova solo le piume. Volatilizzato, ma libero come cenere nel vento, al pari di lei. Libera dal peso dei beni, degli interessi, dalle paure. Il dono resta. E l’amore arriva.