Chantal Akerman, dopo La captive, è al suo secondo adattamento letterario, stavolta da un romanzo di Joseph Conrad. La regista belga riprende e restituisce il topos fluviale, centrale nell’opera dello scrittore anglo-polacco – basti pensare a Cuore di tenebra e alla sua riduzione cinematografica Apocalypse Now – così come i temi della colpa, della perdita e della redenzione. Il fiume è, come per lo scrittore, un riflesso dell’animo umano, una discesa del Lete, il mitologico fiume dell’oblio, che la regista accompagna con il Tristano e Isotta di Wagner e contrappunta con l’Ave Verum Corpus di Mozart – eseguito due volte nel film –, il canto liturgico legato alla redenzione e alla sofferenza della vita terrena.
In generale, la Akerman si serve dell’esotismo conradiano per sviluppare una forte connotazione materica, l’acqua, la tempesta, la foresta, tanto più catartica per una cineasta abituata a lavorare all’interno di spazi chiusi, stanze. E la regista rivendica come altra fonte di ispirazione Tabù, il film di Murnau, e Flaherty ambientato in Polinesia, con quelle sue immagini nell’acqua oceanica. E certe scene, come le traversate nella giungla, con la pioggerellina che batte costantemente, potrebbero benissimo essere quelle di un film di Lav Diaz.
La Akerman lavora a conferire alla vicenda una dimensione atemporale e, quasi, “ageografica”. L’ambientazione originale del romanzo conradiano, la Malesia, e la sua collocazione storica, che fa riferimento al colonialismo inglese, vengono trasfigurate in un generico paesaggio asiatico in un’epoca non precisata. Il pastiche linguistico del film vede una predominanza del francese che richiama una situazione ‘ancestrale’ di colonialismo e sudditanza dall’uomo bianco, europeo. In realtà il film è stato girato in Cambogia e la lingua autoctona è in effetti il khmer. La Akerman ammanta poi la vicenda di una atmosfera onirica, lasciando il dubbio su certe scene forse solo sognate dai personaggi, rendendo labile il confine tra sogno e realtà. Allo stesso modo, si serve di un flusso narrativo dalla concatenazione libera, dove è la voce off a creare raccordi. La vicenda viene ‘denarrativizzata’, i tempi sono estremamente dilatati e gli attori svuotano la recitazione di qualsiasi punta drammatica, eludendo al contempo ogni introspezione psicologica. La costruzione dell’immagine è, come sempre nel lavoro della regista, rigorosissima, basti pensare alla scena finale della spiaggia, e sorprendentemente priva di simmetrie.
La folie Almayer segna una fase di transizione per la Akerman, in cui il minimalismo cede il passo a un film tellurico, dove si sprigionano tutte le energie finora immagazzinate.