È divertente, nel suo insieme, quest’adattamento abbastanza letterale della fiaba di Pollicino. Sia detto come inciso: quando si legge la versione originale di Hansel e Gretel dei Grimm, sembra quasi di leggere una fotocopia del Pollicino di Perrault (anche se in Pollicino i figli sono più del doppio che in Hansel e Gretel). Almeno fino al momento in cui Pollicino giunge nella casa dell’orco. È qui che il registro grottesco del film trova i suoi momenti migliori. L’Orco è un cannibale patologico, questo è ovvio, ma assomiglia tanto al maniaco sessuale compulsivo della mercificazione delle carni (quelle destinate ad uso sessuale e non), nell’odierno neo-medioevo tecnologico dominato dai mercati finanziari (i feudatari del Duemila). Più genericamente, è metafora del capitalista (la sequenza più divertente è quella dell’incubo dell’orco, dove lo si vede, potente in veste moderna, mangiare parti di esseri umani, cucinati in stile nouvelle cuisine: un incubo perché per un orco del Medioevo l’asetticità contemporanea è davvero troppo mostruosa). Sono svelate anche le latenze pedofilo-incestuose della fiaba – il non detto – anche se con l’uso di modalità prevedibili, non sottili, che la scelta del grottesco giustifica solo in parte. Una delle scelte più intelligenti del film è il rimando al nostro cannibalismo e sadismo – come era in fondo tipico delle fiabe, prima delle disneyzzazioni cattive e crudeli –, facendo gioire lo spettatore per la morte delle figlie dell’orco, da lui erroneamente sgozzate durante la notte grazie all’astuzia, scaltra, di Pollicino.
La mercificazione delle carni è esplicitata fin dall’inizio, nella sequenza con gli animali: un susseguirsi di feti et similia. Un cannibalismo fetale per una società irrimediabilmente malata. La prova definitiva arriva con il finale, che ribalta quello originario. Pollicino, dopo aver ucciso l’orco e preso possesso degli stivali (che triplicando dimensioni, forza, velocità, conferiscono un enorme potere), non divide l’oro dell’orco con i fratelli, ma tiene tutto per sé, obbligandoli a strisciare davanti a lui per ottenere qualsiasi cosa. Si trasforma a sua volta in tiranno, in un orco dei rapporti umani e familiari. Il film rivela così la sua natura di piccola parabola sul desiderio di potere letto nella sua versione più contemporanea, l’altro versante del cannibalismo mercificato: il narcisismo, l’ego insensibile cresciuto a dismisura, come amplificato da un pantografo (gli stivali dell’orco), patologia riscontrabile in qualsiasi settore della vita umana odierna, e divoratore appunto dei rapporti umani. Il film ce lo dice da un’angolazione piuttosto inattesa e inedita, diverte abbastanza, anche se affiora la sensazione di un esercizio un po’ vano.