Ognuno deve avere la sua tazza. Ogni tazza deve essere diversa dalle altre. Il particolare che la distingue deve apparire evidente a tutti, talmente chiaro da risultare distintivo. Perché sulle tazze non ci sono sfumature.
Questa è l’unica regola che vige all’interno di un gruppo di infermieri, che hanno innescato un traffico di “sostituzioni di vite umane”: quando qualcuno muore, una squadra si occupa di portare nella casa del defunto un degno sostituto che possa accompagnare chi è rimasto il tempo necessario per accettare la scomparsa. “Alps” è un gruppo di aiuto, composto da un capo viscido e silenzioso, un allenatore arrogante ma insicuro, una giovane atleta dalle belle speranze (l’incantevole Ariane Labed, già interprete di Attenberg) e un’infermiera silenziosa e osservatrice. Al contrario che in Seconds di Frakenheimer, qui non c’è bisogno di accurate operazioni chirurgiche per essere scambiati per qualcun’altro, basta camuffarsi prendendo soltanto le apparenze del defunto: il completino da tennis, gli occhiali da vista, il cappello militare o le scarpe da ginnastica. L’identità è definita dalla superficie dei modi di fare, dalle battute ricorrenti, dalla lista infinita di “mi piace” che identificano i nostri profili sui social network (da qui la battuta reiterata nel film: “quale è il tuo attore preferito?”): componiamo superfici colorate, che si sostituiscono a noi stessi, riconsegnando all’Altro un’immagine di sé tanto definita quanto rassicurante. È tutto qui quello che resta dopo la nostra morte? Quello che mancherà ai nostri cari? La frase ripetuta ossessivamente durante l’orgasmo, tanto finta nella sua verità, o la dolcezza di chi si morde le unghie rivelando l’insicurezza adolescenziale o, ancora, l’accurato taglio del barbiere che diventa insostituibile?
La prima parte di Alps di Yorgos Lanthimos tematizza questa superficialità disarmante, in cui l’individuo perde la propria essenza trasferendo le sue peculiarità sul corpo di un altro, in un continuo straniamento tra attore e persona in una messa in scena reiterata per allontanare l’idea della morte e il dolore. In case dove televisioni e computer sono assenti si consuma il rituale privato dell’alienazione, in cui l’altro (colui che recita, come colui che è morto) è accettato soltanto come riflesso di un ricordo personale, riducendone la sua alterità. Lo straniamento brechtiano degli attori riporta una continua scissione, che diventa anche l’unica maniera possibile per dimenticare la propria solitudine e tristezza. La silenziosa infermiera, che infrange i pochi tabù dell’associazione, spinge la situazione al limite, innescando l’unico svolgimento narrativo possibile nel film: persino il privato è recita in una mise en abyme che svela la radicale sostituibilità nelle vite degli altri. L’unica possibile ribellione passa ancora nell’infrangere un tabù: quando si sceglie di uscire dal ruolo di figlia per diventare amante. O quando si prova a colmare un campo cinematografico con il suo controcampo, segno dell’urgenza di una reale comunicazione con gli altri, che non viene accolta da chi aveva stabilito le leggi della relazione.
Un film di presenze isolate in spazi privati che restituisce una rappresentazione stilizzata dei nostri giorni, senza spingersi sul versante dell’eccessiva astrazione estetizzante, per restituire l’atmosfera impalpabile (e crudele) di relazioni senza volti e amicizie senza esperienze, di esistenze imbastite sulla continua performance. Siamo tutti ginnasti che vorrebbero poter scegliere la musica su cui ballare, come suggerisce il prologo del film, ma non ce ne è data l’opportunità. E quando la passione dei Carmina Burana si trasforma nella ritmicità pop, la performance – benché perfetta – è comunque eseguita per compiacere un solo spettatore e chiude in un abbraccio letale ogni speranza comunitaria.