Può accadere che una miniserie appaia semplicemente sprecata sul piccolo schermo. Nonostante una durata (332 minuti), che lo rende non facile da fruire in una comune sala di proiezione, Mildred Pierce di Todd Haynes, produzione targata HBO, rientra sicuramente in questa categoria. Siamo lieti che Venezia 68 ci abbia dato la possibilità di accedere nella maniera migliore ad un oggetto cinematografico che esonda dal mezzo per cui è stato pensato. Due sono gli elementi che portano a questa conclusione: da una parte, una superba ricostruzione d’epoca (siamo in piena Depressione: la storia corre attraversando gli anni ’30), incorniciata dalla splendida fotografia di Ed Lachman, dall’altra il fatto che la fluviale trasposizione del romanzo di James Cain è un’opera levigata, ricca e ambiziosa, raffinata nel senso stilistico della parola, che si ricollega alla poetica di Haynes e al suo Lontano dal paradiso per quello che riguarda la riflessione sui limiti della morale di un’epoca, come pure ai codici rappresentativi che all’epoca venivano utilizzati per parlare della contemporaneità. In questo senso è particolarmente interessante un confronto con Il romanzo di Mildred di Michael Curtiz (1945): 220 minuti in meno, e rimaneggiamenti (il playboy in disgrazia Monty Beragon nella versione Haynes non viene affatto ucciso) che all’epoca trasformarono il romanzo soprattutto in un noir. A differenza di quanto fatto con Sirk in Lontano dal paradiso, stavolta Haynes dimentica semplicemente il film di Curtiz e si focalizza sulla pagina di Cain: Mildred, che rimane “Pierce” anche quando si separa dal marito Bert Pierce, e quando smette di essere tale cade dalla padella nella brace, diventa, più che un’eroina proto-femminista, un’antieroina proto-borghese post bellica con una tale quantità di sfaccettature che spesso lo spettatore è portato ad avvicinarsi quanto ad allontanarsi da lei. In lotta con le convenzioni, ma soprattutto con le avversità del suo tempo, Mildred invecchia e poi sfiorisce, riprende forza e poi cade in cupi e comprensibili baratri di depressione nel tentativo di restare a galla. Può sembrare un’esagerazione, ma in cinque ore e mezza si percepisce nettamente la sensazione di un’esemplare economia narrativa, senza una sola inquadratura sprecata: perché Haynes sfronda tutto quello che può sembrare ridondante, ripetuto e non necessario, e segue il fluire degli eventi attento a schivare ogni possibile ovvietà. Soprattutto, ha fiducia nell’immagine e nel suo potere: e l’evolversi del rapporto ambiguo e sottilmente morboso tra Mildred e sua figlia maggiore Veda è raccontato come una lentissima discesa nella follia quotidiana della prima e patologica della seconda. Diciamo pure che Mildred Pierce sa farsi rispettare anche dal punto di vista del ritmo: la prima e l’ultima puntata (di cinque in totale) in particolare sono letteralmente trascinanti, l’una nel raccontare il risollevarsi della protagonista dall’abbandono del marito, l’altra nel cogliere i mille rivoli in cui la sua rinnovata fortuna finisce per disfarsi. E’ da sottolineare però che nonostante tutto Mildred Pierce non è una saga familiare nel vero senso della parola, anche se si finisce con l’appassionarsi ad ogni personaggio da cui è popolato. Se è una saga, è una saga focalizzata, più che su Mildred, sulla difficoltà a “morire” dell’orgoglio borghese, quello, in altre parole, del poter costruire/ricostruire/ricominciare la propria fortuna: un orgoglio che si trasmette attraverso le generazioni, trasformandosi ed ingigantendosi, sfuggendo al controllo, come dimostra la giovane quanto luciferina Veda. Evan Rachel Woods, che la incarna, le dona un’interpretazione furente e maligna che fa addirittura passare in secondo piano quella sofferta e mimetica della Mildred di Kate Winslet. Le scene in cui la vediamo cantare sul palco posseggono una forza magnetica impressionante, e il confronto finale madre/figlia esonda psicologicamente in un orrore quasi insostenibile proprio grazie a lei.