A volte sarebbe utile tenere a mente, quando ci accingiamo a consumare il vetusto rituale di pagare per assistere a una proiezione cinematografica, che il cinema ha mosso i suoi primi passi tra il laboratorio scientifico e gli spalti di una fiera, che le sue radici ideologiche affondano tanto nelle misurazioni del fisiologo Etienne-Jules Marey quanto nel ‘circo umano’ di Phineas Barnum. È peculiare dei fenomeni in fase di dissoluzione rivelare qualcosa della loro essenza originaria e il cinema non pare sottrarsi a questa regola. L’ultimo film di Abdellatif Kechiche ha l’ambizione e il coraggio di rammentare questa bifida origine in modo tanto sgradevole quanto efficace.
Affermatosi ormai presso critica e pubblico per il suo realismo arioso e rigoroso, sensibile nel lavoro con attori non professionisti, acuto e critico nel trattare le dinamiche e le tensioni interculturali, il regista franco-tunisino sembra al tempo stesso confermare e scartare le aspettative, affidando la sua opera più radicale e teorica ad un film storico in costume. E così il ricco e complesso teatro della vita, che egli ha colto nelle precedenti opere, si svuota per lasciare posto alla scabra e tetra scena della vita presa nel gioco crudele del potere spettacolare.
L’approccio realista e le implicazioni inter-etniche, così come l’alchimia attoriale del non professionista (la splendida Yahima Torres), sono conservati grazie al debito documentale che il film intrattiene con la storia di Sartjee Baartman, ragazza di etnia Khoi-Khoi arrivata in Europa dal Sudafrica nel 1810, al seguito del boero Caezar, per trasformarsi da sua domestica in fenomeno da baraccone, la “Venere ottentotta”. Costruito su estesi e compatti tableaux, il film mette in scena le stazioni della sua discesa agli inferi dell’Europa colonialista, passando dai baracconi dei bassifondi londinesi ai salotti aristocratici e libertini francesi fino al bordello, alla morte per sifilide e all’acquisizione e dissezione del suo cadavere da parte del Musée de l’homme di Parigi.
Se a tratti, nel suo sviluppo narrativo, il film sembra scadere in un naturalismo d’appendice, è proprio nella composizione interna dei suoi blocchi che esso trova la sua potenza, nell’eccesso di esposizione di un corpo ostaggio di uno spettacolo voyeurista, nella liquidazione di ogni distanza critica in un effetto di presenza shockante, asfissiante, che oscilla tra l’oggettività descrittiva del naturalismo e i suoi ben noti risvolti sadici e morbosi. Il rischio di Kechiche, insomma, è quello di rendere tanto palpabile l’aberrazione dello sguardo che intende denunciare da sovrapporvi il proprio fino a confonderlo: ma è un rischio che egli sembra voler correre fino in fondo, una lucida auto-immolazione. La macchina da presa è mobile, palpitante, le inquadrature serrate giocano il campo-controcampo come confronto ossessivo, sfacciato tra i volti eccitati e indecenti degli astanti e lo sguardo opaco, umiliato di Sartjee, che sembra avere la potenza implosiva di un buco nero, in grado di assorbire ogni scempio, ma che gradualmente si satura, sempre più appesantito, annebbiato dalla degradazione e dall’alcool che aiuta a sostenerla.
Il nodo di queste scelte di messa in scena, che intreccia oggettività scientifica e desiderio osceno, traspare chiaramente nell’incipit sdoppiato: l’ultimo atto della storia di Saartje, la lezione di anatomia in cui Georges Cuvier ne espone i genitali in un barattolo di formaldeide come campione del “grembiule ottentotto” (uno sviluppo abnorme delle piccole labbra tipico delle boscimani), precede immediatamente il primo debutto della Venere nel freak-show londinese. Kechiche ci immerge così fin da subito in uno spazio privo di aria, come la preparazione che conserva i resti della donna: non risparmia nulla allo spettatore, lo schiaccia contro il freddo vetro della rappresentazione, inchiodandolo alla responsabilità del proprio sguardo, senza lasciargli comode via d’uscita attraverso la colpevolizzazione o la dovuta e civile presa di distanza.
Non sarebbe difficile, infatti, cogliere analogie tra le argomentazioni razziste di ieri e di oggi, l’inammissibile ‘ragionevolezza’ con cui un assunto fallace, sia esso scientifico o economico, si presta a giustificare ogni abominio della biopolitica. Ma è proprio la non coincidenza tra il nostro sguardo e quello dell’epoca, l’inutile sforzo che dovremmo fare per riconoscere nelle peculiarità fisiche della donna qualcosa di mostruoso, aberrante, a far emergere i risvolti più inquietanti del film, che in questo senso supera in crudeltà Freaks di Tod Browning, La donna scimmia di Marco Ferreri o Elephant Man di David Lynch: se questi infatti radicano nel piano percettivo la loro sfida a riconoscere l’umanità del mostro, qui siamo invece costretti a cercare un presunto monstruum in un corpo sostanzialmente normale, anzi bello e vitale, se la steatopigia di Saartje è stata anche la prima figurazione della bellezza e fertilità del corpo femminile, così come ricordano le statuette vendute da Caezar al termine dell’esibizione. Il corpo “ottentotto” deve essere invece addobbato di un costume culturale perché l’imbonimento abbia il suo effetto: Saartje è costretta a recitare la parte della selvaggia, ma questo velame ideologico è sottile come il suo perizoma, è proprio esso a rivelare una nudità più essenziale di quella corporea: reperto scientifico o feticcio sessuale, il corpo di Saartje incarna allora la “nuda vita” stessa, presa e consumata negli ingranaggi del potere e dello spettacolo. E proprio quando esce dalla parte, quando dimostra il suo talento musicale o lascia erompere le lacrime della sua ferita morale, la rappresentazione collassa e l’abiezione voyeurista del pubblico si trova spiacevolmente rispecchiata nel grido, che è poi un canto dolcissimo o un pianto sommesso, dell’animale umano.
Venere nera (Venus noire), regia di Abdellatif Kechiche, Francia/Italia/Belgio 2010, 166′