Una parte di me capisce perfettamente perché un minimalista come Jim Jarmusch e una figura ottocentesca come Raúl Ruiz non intendano avere niente a che fare con l’email. Ruiz una volta mi ha detto: “Le mail non hanno odore”, spiegando così parte della sua avversione. Più difficile è provare nostalgia nei confronti della critica cinematografica prima dell’avvento di Internet, perché anche se aveva un odore era davvero poca quella rintracciabile al di fuori di alcune librerie universitarie ben fornite. Allo stesso modo, la scelta di film che si potevano vedere fuori da New York o Parigi prima del DVD era molto più ristretta, persino più casuale e confusa di ciò che si poteva leggere al riguardo.
Le due evoluzioni non vanno considerate separatamente. L’incremento della scrittura riguardante il cinema sul web – magazine online, siti di riviste e giornali, gruppi di discussione e blog – si è evoluta parallelamente ad altre strutture di condivisione dedicate alla cultura cinematografica e ritengo che ciò sia più rilevante del declino della distribuzione in sala di film indipendenti e “d’arte”.
Quando ero un giovane cinefilo nella New York dei primi anni ’60, le più importanti riviste di cinema scritte in inglese erano quelle che raccoglievano intorno a sé i contributi più diversi: Sight and Sound, Film Culture e Film Quarterly. Anche una rivista più locale e partigiana come New York Film Bulletin traduceva testi dei Cahiers du cinéma. Il mondo del cinema allora era più piccolo e gran parte della nostalgia per quell’epoca ha sicuramente a che fare con una sensazione di intimità. Quando la critica cinematografica ha cominciato a diffondersi in rete, si era ormai stabilmente insediata in ambito accademico e giornalistico, istituzioni che si sono spesso comportate in maniera indifferente nei confronti l’una dell’altra, quando non platealmente ostile.
La presunta “età dell’oro”, dunque, deve essere stata precedente a questa istituzionalizzazione.
Significativamente, gli sforzi più convincenti nel disseminare la critica cinematografica all’interno del web non sono arrivati né dagli Stati Uniti né dalla Gran Bretagna ma dall’Australia – in particolare l’accademico Screening the Past, fondato a Melbourne nel 1997 dallo studioso di belle arti Ina Bernard, e il più giornalistico Senses of Cinema, fondato nella stessa città dal filmmaker Bill Mousoulis nel 1999. Entrambe le pubblicazioni vanno alla grande, hanno rispettivamente pubblicato 29 e 58 edizioni (dato aggiornato al maggio 2011, ndr) e continuano a conservare nel loro archivio online tutte le precedenti, benché Senses abbia subito numerose modifiche dalla partenza di Mousoulis nel 2002 e un altro editor, il critico Adrian Martin, sia fuoriuscito per fondare il non meno ambizioso Rouge nel 2003 (l’ultimo numero è del 2009, ndr). È facile ipotizzare che tale concentrazione australiana sia fiorita grazie a una film community locale altamente sviluppata e interattiva, al desiderio di essere riconosciuti e allo stesso tempo di comunicare con il più ampio mondo della cinefilia.
Altri siti estremamente utili, considerati ormai punti di riferimento (si tratta di una breve lista aggiornata nel 2009), includono gli accademici film-philosophy.com (l’ultima pubblicazione, dedicata a Baudrillard, è del 2010) e filmstudiesforfree.blogspot.com e, negli Usa, il giornalistico (e particolarmente attento nei confronti dell’industria) moviecitynews.com, theauteurs.com (poi MUBI, ndr) e girlshambu.com, tutti validi nell’indirizzare verso altri siti. Ci sono poi le versioni web di riviste specializzate (Sight and Sound, Film Comment, Cineaste, Cinema Scope) che offrono estratti delle edizioni stampate, e siti che hanno rimpiazzato in toto la propria versione cartacea, come Brigh Lights.
La mia conoscenza di blog e gruppi di discussione è più limitata, ma almeno un paio vanno menzionati. Tra i blog di critici più notevoli ci sono quelli dedicati in inglese a Serge Daney (sergedaney.blogspot.com) e a Raymond Durgnat (ormai rimosso), e quelli curati da Fred Camper, Steve Erickson, Chris Fujiwara e Dave Kehr (il mio sito web jonathanrosenbaum.com è stato lanciato nel maggio 2008). E i principali gruppi di discussione dei quali sono a conoscenza sono l’autoriale “a film by”, “film and politics” (nato come scheggia del precedente, su Yahoo), e alcuni gruppi separati situati sull’elaborato sito wellesnet.com (“the Orson Welles web resource”). Quest’ultimo richiama alla mente una trafila di altri siti dedicati a singoli registi, tra i quali alcuni davvero notevoli, come quelli su Robert Bresson, Carl Dreyer, Jonas Mekas e Jacques Tati.
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Quanto è vasto il pubblico di queste fonti? Klaus Eder, a lungo segretario generale di FIPRESCI, l’organizzazione internazionale dei critici, mi ha detto qualche tempo fa che Undercurrent – una rivista online fondata nel 2006 da Chris Fujiwara con all’attivo solo tre numeri – aveva centomila lettori al mese. Considerando il livello di specializzazione della rivista – che si è occupata del critico cinematografico Barthélemy Amengual, di Alexander Dovzhenko, della recitazione in Madigan di Don Siegel, di cinema austriaco, del sound designer Leslie Schatz e ha pubblicato saggi su Cameron Crowe, Philippe Garrel, Danièle Huillet, Terrence Malick, Park Chan-wook e Tsai Ming-liang – e considerando che i suoi centomila lettori sono più di tutti quelli che leggono le riviste cartacee messi insieme, l’informazione è sorprendente, oltre che foriera di incredulità. Era difficile far quadrare questa cifra con quella fornitami da Gary Tooze riguardo un mio recente articolo intitolato “Ten Overlooked Fantasy Films on DVD (and Two That Should Be!)” sul suo sito più commerciale DVD Beaver (dove ha stimato circa diecimila click durante la prima settimana in cui è stato postato l’articolo).
Ma quando Klaus ha aggiunto che il tempo medio che ogni lettore trascorre su Undercurrent è di circa due minuti, ho compreso che il mio stupore era prematuro e che la sovrapposizione di due griglie incompatibili – una riguardante gli abbonati e i lettori di riviste come i Cahiers du cinéma, Film Quarterly e Sight and Sound, l’altra dedicata ai navigatori del web – poteva condurre solo a conclusioni confuse. E non credo che un paragone con DVD Beaver sia particolarmente significativo, dal momento che non conosco il tempo di permanenza dei lettori sul sito.
Recentemente ho anche saputo da David Bordwell che il suo sito davidbordwell.net “riceve quotidianamente tra i 250 e i 450 visitatori unici, con una media di 2-3 pagine aperte da ciascuno. La maggior parte dei visitatori arrivano sul sito per la prima volta, e circa 60-100 ci ritornano. Come prevedibile, si tratta in gran numero di europei o americani”. Non credo si possano mettere in relazione queste cifre con quelle delle vendite dei libri di Bordwell (che non gli ho chiesto), e non sono nemmeno sicuro che sia significativo paragonare il suo sito a Undercurrent, data l’ampiezza di argomenti ricercati dai navigatori del web. Bordwell si serve del suo sito soprattutto per ampliare o aggiornare i propri scritti cartacei, un atto che fa riferimento a funzioni qualitativamente differenti da quelle dei suoi lavori pubblicati.
Partendo da queste considerazioni, ho cominciato a comprendere che le affermazioni riguardo l’estinzione della critica cinematografica e quelle di tipo opposto, relative all’inizio di una nuova epoca d’oro, sono ugualmente mistificanti se ritengono che la critica cinematografica in quanto istituzione funzioni nella stessa maniera sulla carta e sul web, come fossero due versioni della stessa cosa, anziché trattarsi di due iniziative differenti. I dibattiti relativi alla distribuzione di film stranieri nel mondo anglofono (in via di drastica riduzione nelle sale e in aumento esponenziale in dvd), alla sofisticazione di giovani cinefili riguardo la storia del cinema (in crescita stando alcuni gruppi di discussione, in declino stando ad altri), alla cifra dei film realizzati (ancora più difficile da determinare se film e supporto video vengono considerati intercambiabili), appaiono ugualmente incoerenti per la disparità dei punti di riferimento e trasformano in una Torre di Babele molte discussioni interessanti. Il fatto di non sapere se qualcuno che dice “ho visto un film” l’ha visto su un grande schermo insieme ad altre centinaia di persone o da solo su un laptop (o se ha visto un film o un dvd, a prescindere dal luogo in cui l’ha visto) è un aspetto centrale della nostra relazione alienata nei confronti del linguaggio.
In breve, stiamo vivendo un periodo di transizione dove enormi mutamenti paradigmatici dovrebbero dare vita a nuovi concetti, nuove terminologie e nuovi metodi di analisi e valutazione, per non dire nuovi tipi di informazione politica e sociale, così come nuove forme di comportamento. Nella maggior parte dei casi non succede nulla di tutto ciò: ci affidiamo ancora a vocabolari e schemi di pensiero legati alla maniera in cui vedevamo i film mezzo secolo fa.
Se consideriamo brevemente anche solo la questione riguardante l’etichetta in uso nelle mail o nei gruppi di discussione, incappiamo in uno sconfortante assortimento di nuovi modi di comportamento. Se spedire una mail a qualcuno può a volte avere a che fare con il tipo di intimità che associamo al sussurro, esistono anche nuove forme di brutalità interpersonale che emergono periodicamente nei gruppi di discussione e obbligano i moderatori di tali gruppi a imporre standard di civiltà tra i membri. Anche la definizione di “straniero” ha subito una notevole trasformazione all’interno dei gruppi di discussione e alcuni di noi non sono ancora riusciti a trovare il corretto comportamento all’interno di tali contesti.
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Al fine di comprendere nuove esigenze che i vecchi sembrano incapaci di imparare, può essere utile tentare di ridefinire il concetto di comunità in relazione alla geografia, centrale all’interno di questi sviluppi. Diventa rilevante, ad esempio, il fatto che Fujiwara editi Undercurrent da Tokyo così come da Boston, e che l’editor di Film Quarterly, pubblicata dall’University of California Press, svolga il suo lavoro a Londra – e forse anche il fatto che questa frase sia stata scritta su un aereo tra Chicago e Vancouver – specialmente se continuiamo a considerare il contenuto di entrambe le riviste come indirizzato a un pubblico specifico con una base geografica definita in relazione a una particolare nazione, città, università o istituzione. Essendo io una persona che sente di vivere più su Internet di quanto non viva a Chicago, considero tale distinzione di enorme rilevanza riguardo la maniera in cui funziono come scrittore. Forse è rilevante anche il fatto che Rouge, la più ambiziosa tra le riviste di critica cinematografica online (i suoi testi vengono tradotti in inglese da fonti cinesi, francesi, tedesche, italiane, spagnole, portoghesi) abbia avuto origine in Australia. O quanto meno grazie a tre editor australiani, che in qualunque momento potrebbero trovarsi in Francia, in Grecia o altrove mentre svolgono il proprio lavoro. Ma se ciò è rilevante in parte lo è perché l’Australia è un paese multiculturale, dove esiste un canale televisivo statale multiculturale, SBS, praticamente unico al mondo.
Sono convinto che il concetto stesso di nazione stia diventando obsoleto e disfunzionale, fatta eccezione per gli interessi di politici e corporazioni e la loro concezione dei singoli Paesi in qualità di mercati.
È sconcertante sapere che il fatto che il resto del mondo detesti George W. Bush almeno quanto me sia stato liquidato come irrilevante all’interno della strategia politica del Partito Democratico, così che gli Stati Uniti paiono più isolati dal resto del mondo di quanto lo fossero all’epoca della Guerra Fredda, nonostante Internet offra possibilità di comunicazione e interazione un tempo impensabili. E se riduciamo questo incredibile paradosso alle dimensioni più ridotte della comunità cinefila, sono evidenti le stesse anomalie. Le possibilità di scelta per l’appassionato medio di cinema si stanno restringendo nello stesso tempo in cui i tesori della cinematografia mondiale sono per la prima volta disponibili a livello internazionale in dvd.
Parte del problema nello stabilire le nuove condizioni riguarda una vecchia abitudine che tende a considerarle di riflesso come buone o cattive – il ché è altrettanto futile quanto arrivare a una conclusione semplicistica riguardo la globalizzazione.
Lasciate che vi illustri questo concetto per mezzo di alcuni aneddoti personali. Poco dopo l’11 settembre 2001 sono stato invitato dall’editor del Chicago Reader a scrivere qualcosa sulle conseguenze dell’evento. Dopo la sua decisione di non pubblicare il mio articolo ho ricevuto una richiesta simile da Senses of Cinema, a cui ho spedito lo stesso articolo, leggermente rivisto.
Avevo scritto della mia paura riguardo il terrorismo, tanto americano quanto mediorientale – riferendomi agli americani che avevano improvvisamente cominciato a pensare allo scomparso World Trade Center come se fosse una loro proprietà privata e agli attacchi dell’11 settembre come fossero semplicemente, e senza ambiguità alcuna, un “attacco all’America”, consentendo così ai terroristi mediorientali e alle loro posizioni di dettare i termini della discussione e, di conseguenza, rendendo irrilevanti i non americani di otto differenti Paesi morti nell’attacco. Ero particolarmente infastidito da un manifesto con una bandiera americana e sopra le parole “11 settembre 2001/non dimenticheremo” posto in fronte al palazzo in cui vivo a Chicago da un inquilino che non si era preoccupato di avvisare nessuno degli altri residenti dell’edificio. Consapevole del fatto che le bandiere vengono spesso usate per intimidire, per chiudere conversazioni e non per aprirle, ho obiettato alla successiva riunione condominiale che “non dimenticheremo” in questo contesto significava che non avremmo dimenticato tutti i non-americani uccisi – al qual punto il mio vicino ha abbandonato la stanza rifiutandosi di discutere oltre l’argomento, con il risultato che il manifesto è rimasto lì dov’era per numerose settimane. Ero tentato di attribuire parte di quel terribile clima a un certo “narcisismo del lutto” che un regista tedesco mi ha menzionato di recente in relazione ad alcune sua amicizie newyorkesi.
Poco più di un’ora dopo che il numero di Senses of Cinema contenente il mio articolo è apparso online, ho ricevuto una email offensiva da parte di un critico di New York che conoscevo solo superficialmente il quale mi scriveva, in un impeto di rabbia, che non avevo nessun diritto di accusare gente come lui di essere narcisisti nei confronti del lutto quando dal suo appartamento poteva ancora sentire l’odore della cenere della carne bruciata. Avevo a che fare con tre irreconciliabili e disparate definizioni di comunità allo stesso tempo: una sensazione di censura, repressione e intimidazione nell’edificio in cui vivevo; una capacità di esprimere liberamente e apertamente questa sensazione e condividerla con altre persone grazie a un sito situato dall’altra parte del pianeta; e un’altra, quasi traumatica, nel venire assalito da una mia conoscenza a 800 miglia di distanza per aver espresso quel medesimo sentimento. La prima e l’ultima di queste esperienze erano da incubo e distopiche, la seconda utopica, e le ultime due possibili solo grazie a Internet, poiché non riesco a immaginare che la mia conoscenza newyorkese mi avrebbe mai telefonato per comunicarmi lo stesso messaggio. E solo la prima corrispondeva geograficamente al luogo in cui mi trovavo.
Il secondo aneddoto riguarda la recente dipartita di Danièle Huillet e la maniera in cui è stata ricevuta da numerose persone su “a film by”. Poco dopo aver appreso questa notizia sconvolgente (datami per telefono da un collega di New York, Kent Jones) ho postato l’informazione sul gruppo di discussione e per le successive 24 ore i commenti sono stati abbastanza limitati. Ma quando hanno cominciato a esserci erano dettagliati e ad ampio spettro e venivano da località distanti come Los Angeles, Parigi, il Midwest statunitense e Melbourne. Includevano foto della Huillet da piccola, ai tempi in cui viveva in una fattoria (postata su kinoslang.blogspot.com), che non sapevo nemmeno esistessero, informazioni relative al primo video digitale di Straub-Huillet (che poi ho scoperto essere disponibile online), link a un articolo di Libération e parecchi testi precedenti scritti in inglese – oltre che una dettagliata (e controversa) discussione riguardo un necrologio scritto da Dave Kehr per il New York Times, un necrologio che plausibilmente non sarebbe stato scritto se la notizia relativa alla morte di Danièle Huillet non fosse stata postata su “a film by”.
In generale, il tipo di discorso e comportamento vigente in “a film by” va dalle news all’analisi critica, passando per infantili e protratti scambi di insulti – un mix che non è certo ristretto ai gruppi di discussione dedicati al cinema e che può essere caratterizzato come riguardante i partecipanti occasionali e quelli abituali (o compulsivi) – coloro che li visitano periodicamente e quelli che sembrano fare poco altro a parte scambiare commenti. Significativamente, questo gruppo in particolare è stato formato inizialmente dai critici Fred Camper e Peter Tonguette per contrastare il comportamento poco educato regnante negli altri gruppi di discussione cinematografici e nonostante continui a essere costantemente monitorato ciò non ha escluso periodiche ricadute nell’invettiva, capaci di sovrastare qualunque tipo di comunicazione. Sarebbe interessante conoscere il parere di psicologi e/o psicanalisti sulle derive psichiche e i “complotti di famiglia” espressi in questi scambi, le cui forme di comportamento paiono essere specifiche del mondo di Internet e minano periodicamente le sue potenzialità più utopicamente progressiste.
Grazie al sito cimema-scope.com, dove firmo regolarmente una rubrica intitolata “Global Discoveries on DVD”, ho ricevuto una delle più eccitanti illuminazioni riguardo le possibilità inerenti lo scrivere di cinema sul web. Per qualche tempo ho fantasticato che i cineclub, uno degli sproni maggiori della cinefilia francese nel corso dell’ultimo secolo, potessero fare ritorno grazie ai DVD, stavolta in termini globali. I nuovi cineclub sarebbero potuti nascere ovunque, in abitazioni e appartamenti così come nei negozi; un modello di configurazione ideale sarebbe potuto essere quello delle “retrospettive” mobili in DVD, con i DVD venduti alle proiezioni (magari insieme a pamphlet e/o libri di rilievo), così come i CD vengono venduti dai gruppi musicali durante le esibizioni. Se si riuscisse a mettere in piedi un circuito abbastanza ampio di retrospettive organizzate in questa maniera, ciò potrebbe contribuire in maniera decisiva a finanziarne la produzione. In qualche modo questo sogno è già diventato realtà negli Stati Uniti grazie a moveon.org e al modo in cui il sito ha organizzato proiezioni private dei documentari di Robert Greenwald (Uncovered, Out-Foxed, Wal-Mart e Iraq for Sale) anche se la formula non sembra aver avuto fortuna con altre forme di film.
Mentre partecipavo al Festival di Mar del Plata, la scorsa primavera, ho incontrato un insegnate e studioso di Córdoba, Roger Alan Koza, che aveva messo in piedi alcuni cineclub in piccole località che visitava regolarmente: i film scelti per le proiezioni erano tra i più ricercati di cui mi sia mai capitato di scrivere, come The House Is Black di Forough Farrokzhad (1962) e Checkov’s Motifs di Kira Muratova (2002). Il pubblico di queste singole proiezioni, nel complesso, ammontava a 7/800 unità. Considerando quanto è difficile riempire un singolo auditorium di tale capienza nelle nostre città maggiori per proiezioni simili, ho compreso che i paradigmi in perenne cambiamento di questi tempi sono in grado di trasformare anche quello che siamo abituati a considerare il gusto di una minoranza. Una volta che muta il paradigma di una singola zona geografica, tutto può mutare. Forse il film più folle di Kira Muratova è troppo difficile per la maggior parte dei newyorkesi, ma una volta che può essere disponibile in tutto il mondo su un dvd sottotitolato, tutto diventa possibile, compreso il fatto che venga visto da un grande numero di spettatori a Córdoba, in Argentina.
(per gentile concessione di Jonathan Rosenbaum; pubblicato originariamente su Film Quarterly 60, no. 3 (marzo 2007); rivisto e aggiornato nell’agosto 2009, traduzione di Alessandro Stellino)