A cominciare dalla scelta anomala di girare un western in formato 1.33:1, la regista Kelly Reichardt (Old Joy, 2006, e Wendy and Lucy, 2008) pone lo spettatore di fronte a una visione inconsueta e carica di domande. All’orizzonte vasto del cinemascope si sostituisce l’occlusione di un’immagine verticale in cui lo spazio è occupato da una terra brulla e desolata che sembra inghiottire la sete di conquista di sei coloni impegnati in un viaggio senza fine. Una scelta che ci rimanda all’essenzialità dei western di Ford, lontana dall’eclettismo che il genere assunse negli anni Settanta e salda nel dipingere uno scenario che diventa specchio del destino. Fin dalle prime inquadrature, in cui le carovane devono superare, non senza difficoltà, un corso d’acqua, Meek’s Cutoff si segnala nella sua chiara presa di distanza, in uno sguardo ellittico e suggestivo nei confronti di uomini spinti al limite, tra le loro mani ciò che resta della socialità e della politica. La storia, ispirata a personaggi reali e ai loro diari di viaggio, è stata scritta dal romanziere Jon Raymond, collaboratore fedele dalla regista che più volte ha tradotto in immagini i suoi racconti, già in forma di sceneggiatura. Un’avventura di tre coppie dai diversi ideali (di progresso economico, sociale o religioso) ma unite nella ricerca di una nuova terra in cui stabilirsi: affronteranno la via dell’Oregon nel 1845, distaccandosi dal resto del gruppo per seguire una guida arrivista e arruffona (il Meek del titolo), e si ritroveranno a lottare per la vita, perse senza acqua nel deserto.
Rivisitando il mito della frontiera, la regista si confronta con un genere prettamente maschile: il suo intento non è ribaltarne i miti fondanti, ma offrire una nuova prospettiva, filtrando gli avvenimenti dal punto di vista delle donne nelle carovane. Tenute in disparte ed escluse da ogni decisione di rilievo, le donne detengono il potere soltanto nella sfera privata, all’interno delle tende di notte, nei consigli sussurrati al compagno dettati dal buon senso e filtrati dall’emotività. Il punto di vista femminile è quello della micro-storia, delle vicende umane di chi ha partecipato ai grandi eventi senza essere investito da uno scettro, così la quotidianità è il tessuto di una vicenda epica che sa soffermarsi su dettagli banali quanto gli oggetti per la casa, che le tre famiglie portano nelle loro carovane, e le cuffiette delle colone, il loro paraocchi nei confronti della realtà. La ricercata bellezza, che irretisce lo spettatore ad ogni inquadratura, ha fatto definire il film “chic girly”, etichetta del nuovo cinema femminile d’autore che ha nella Coppola il suo più conosciuto esponente. Ma Meek’s Cutoff, che con Somewhere ha condiviso la presentazione alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia (ma ingiustamente non ha trovato una distribuzione italiana), persegue con maggiore profondità il suo particolare punto di vista, facendolo divenire premonizione di un’era in cui l’ordine del mondo segua valori smaccatamente femminili.
Nel film i racconti biblici letti vicino al focolare, tutti incentrati sul rapporto tra maschile e femminile nell’amministrazione della società, offrono l’unica occasione di confronto tra l’ambizione degli uomini e la cautela delle donne, chiosato da Meek con una visione apocalittica: “l’uomo portatore soltanto di distruzione nel mondo, la donna di caos”. Ma la narrazione rigorosa di Kelly Reichardt suggerisce qualcosa di diverso, sottolineando i due diversi approcci con il mistero, non l’altro come divino bensì come straniero: l’indiano che arriva in scena anche in questo western senza spari e senza inseguimenti. Disvelato da una soggettiva di una delle donne, Emily, il nativo è inconoscibile nella sua irriducibile distanza culturale: sarà lei a concedergli fiducia, convincendo gli altri a preferire la sua guida (ispirata agli dei della natura) a quella del cinico Meek. Con uno sguardo teso ed enigmatico tra la donna e l’indiano si chiude un film politico che dona un nuovo spazio agli esclusi dalla fondazione della nazione americana.
Meek’s Cutoff, regia di Kelly Reichardt, USA 2010, 104′