Il remake che non fu (tale). Exemplum di cattiva informazione e superficialità, per ciò che si è letto in giro, The Housemaid di Im Sang-soo c’entra nulla o quasi con l’omonimo film di Kim Ki-young; ma ne mantiene l’effetto dirompente nel mettere a nudo le metastasi di una società – quella coreana – in cui è dal male antico della misoginia che crescono nefandezze peggiori. Nel ribaltamento di prospettiva che intercorre tra le due opere è possibile leggere l’evoluzione della società e soprattutto dell’infinita guerra dei sessi, in atto oggi come ieri con diverse modalità.
Al centro la figura della domestica, per definizione ambigua, per sua natura portatrice di disagio. “Colei che cucina il nostro cibo e veglia sui nostri bambini” – come dice Hoon, protagonista (e unico personaggio) maschile – è un’impiegata che lavora nell’intimo, nel cuore del nucleo familiare, pur rimanendo un’estranea, appartenente a un’altra classe sociale e quindi potenzialmente – per ogni buon ricco borghese che si rispetti – fonte di pericolo (per Chabrol imbraccerebbe il fucile trasformando la quotidianità domestica de facto in lotta di classe). Perché la diversa estrazione sociale non impedisca a Hoon di avere una relazione con la sua domestica è presto spiegato dalla perfida suocera: a guidarlo sono i piaceri del proibito e della totale liceità. La sensazione di onnipotenza del bambino viziato: quel che voglio avrò, qualunque sia la conseguenza.
Per Kim Ki-young – un’autentica istituzione per il giovane cinema coreano, recentemente Bong Joon-ho ha parlato di lui come del suo maestro indiscusso – la domestica era l’elemento perturbante della (falsa) unità familiare, l’effetto deflagrante dell’emancipazione femminile e della sensualità calate in un contesto ipocrita e maschilista. Il gesto di fumare reiterato all’inverosimile, l’ostentazione dei vestiti occidentali in contrapposizione con il tradizionale hanbok della padrona di casa erano il presagio nefasto dello stravolgimento dello status quo in favore di un innaturale ribaltamento di privilegi inviolabili. Per Im, ben più estremo e consapevole, l’analisi è ancor più amara e per certi versi opposta; non che non sia tangibile l’evoluzione della società, in termini di emancipazione e moralismo, ma in fondo è cambiato assai poco (e il contesto, apparentemente più “paritario”, è sostanzialmente solo più ipocrita). Quel che è certo è che l’elemento anarchico e socialmente altro ha ulteriormente perso potere, trasformandosi da temibile mina vagante a disperato agnello sacrificale.
Resta solo l’eccesso d’indulgenza nel grottesco, guidato forse dall’ambizione di mirare a Buñuel, a zavorrare il volo di Im Sang-soo, altrimenti forte di una maestria senza pari nella scelta delle immagini e nell’uso delle stesse come grimaldello sociale. La geniale contrapposizione moglie-camera vs. domestica-bagno nella stessa inquadratura o lo scrutare della macchina da presa, che cerca di racchiudere quanto più le è possibile degli interni della magione padronale per preparare il terreno a ciò che avverrà, sono solo esempi di una perizia che si accompagna allo stile, senza che quest’ultimo diventi una parolaccia. Ancora una volta splendida Jeon Do-youn (Secret Sunshine), incarnazione di sensualità generosamente esposta nella sua umiltà e naturalezza e insieme fiero simbolo di martirio.
The Housemaid (Hayo), regia di Im Sang-soo, Corea del Sud 2010, 106’