Introduzione. IL TRASH DI UNA VOLTA di Alberto Pezzotta

Quando ero molto giovane, avevo tanti motivi per diffidare di Pauline Kael, pur non avendo mai letto niente di suo. Aveva parlato male dei primi film americani di Clint Eastwood, dandogli del fascista. Aveva cercato di smontare il mito di Orson Welles, dimostrando che il merito di Quarto potere non era suo ma dei suoi collaboratori (ciò rende il film meno grande? non ho mai capito che cosa nasconda quell’accanimento). Era il modello inconfessato di Irene Bignardi, l’arbitro del gusto della borghesia radical chic, la nemica degli eccessi e del cinema di genere.

Molti anni dopo mi sono imbattuto nel saggio “Trash, Art and the Movies” del 1969, qui tradotto da Alessandro Stellino, e ne sono rimasto profondamente colpito. E anche se non vi trovo quasi nulla di condivisibile, penso sia un testo da leggere e meditare. Per cominciare, è forse la prima volta che la parola “trash”, qui tradotta come “spazzatura”, viene applicata al cinema con cognizione di causa. Susan Sontag, qualche anno prima, aveva parlato di “camp”, che non è la stessa cosa, e ha una sfumatura meno drastica e molto più complice. Ma di quale trash e di quale cinema parla la Kael? Tra le righe traspare che, per lei, tutto il cinema è trash, in quanto arte industriale e di massa, misera consolazione dell’uomo novecentesco alienato che si rifugia nel buio delle sale (“i veri cinefili”, scrive, sono “quelle persone perennemente dislocate in ogni città, i solitari e i perdenti”). Non sottoscriverei, però fa riflettere: ogni arte, in fondo, è un balbettio e una consolazione, da cui non si può pretendere troppo. La vita è altrove.

Comunque la Kael si lamentava della decadenza del cinema in anni in cui l’industria sfornava roba firmata da Kubrick, Penn, Peckinpah. Ma come tratta la Kael 2001: Odissea nello spazio, fresca di visione? Come un film trash e kitsch, per i messaggi consolatori (“C’è un’intelligenza lassù nello spazio che controlla il vostro destino dalla scimmia all’angelo”), i trip psichedelici (“il paradiso in Cinerama”, che “paragonato al lavoro di un regista sperimentale come Jordan Belson, è di terza mano”), l’insopportabile seriosità. Non so se la Kael abbia mai scritto una palinodia, ma la diagnosi kubrickiana è a suo modo acuta; o almeno è un punto di vista di cui tenere conto, anche nell’ottica che il sublime confina, come sa anche mia zia, con il ridicolo. Ma ancora più interessante è il fatto che la Kael già constata come una nuova generazione “ha cominciato a trattare la spazzatura come se fosse vera arte”: a partire dagli studenti che “sfruttano l’educazione ricevuta per imbastire spiegazioni di grande effetto per aver apprezzato piatti molto semplici e tradizionali.” E qui la nostra falsa coscienza si sente chiamata in causa: chi è senza peccato…

La Kael, tirata su a Godard, Bergman e Buñuel, considerava trash il monolite nero e l’astronave volteggiante a suon di Johann Strauss (lei non lo sapeva, ma era molto simile a quella di I criminali della galassia di Antonio Margheriti, 1965, che Kubrick aveva conosciuto, senza mai vantarsene). Facciamo un salto di quarant’anni. Due o tre generazioni hanno provveduto a sdoganare quello che la Kael esecrava: Eastwood, Corman, e nomi ben più oscuri e temibili di cui non sospettava neanche l’esistenza. Tutti sanno quanto si sia allargata l’area non tanto dell’artisticità (concetto che non interessa più a nessuno), quanto del discorso critico: dal saggio accademico all’articolo da settimanale femminile, si concorda che è cosa buona e giusta prendere su serio, e anzi considerare come chic o trendy, Tarantino e Russ Meyer, Jess Franco e Mario Bava.

Da tutto questo si può trarre una sana lezione di relativismo. La pornografia è l’erotismo degli altri, diceva Alain Robbe-Grillet. O era il contrario? In ogni caso, il cinema che amiamo è spesso il trash di qualcun altro. Con la differenza che il trash di ieri non è quello di oggi. Per cominciare, l’accezione in cui oggi usiamo la parola trash, dopo Tommaso Labranca, è completamente diversa. I critici americani perbene, quando dicevano, ancora nel 1981, che Vestito per uccidere di De Palma era trash, volevano stigmatizzarlo, non ammiccare a un pubblico smaliziato, capace di recuperare il brutto in quanto “eccessivo” o “trasgressivo”. Gli anni Ottanta, per altro, sono stati il discrimine tra il vecchio atteggiamento “camp” e la nuova categoria del “trash”, utilizzata in chiave positiva. Se il “camp” era un fenomeno elitario, intellettualistico e snobistico, e che si può definire come il riuso ironico del Kitsch, parzialmente rivalutato, il “trash” della fine degli anni Ottanta è stato un fenomeno di massa e giovanilistico, marcato da una immersione nel basso con molte meno remore, alibi e pregiudizi, e spesso con meno ironia. Gli anni Ottanta sono stati quelli di W la foca e dello splatter. E con il suo anti-intellettualismo, non si può negare che il trash, rozzamente anarchico, abbia portato qualche salutare scossone nelle accademie del buon gusto.

Ma poi arrivano gli anni Novanta, e neanche il trash è più lo stesso. Da una parte (come accade con i cult movies) viene programmato a tavolino, non è più fenomeno spontaneo che viene dal basso, ma gadget, strumento di marketing. E il trash d’epoca, viene venduto in cicli televisivi e collane homevideo da edicola, diventa griffe, prodotto di nicchia, ghettizzato e reso innocuo: come le collezioni di figurine dei calciatori, suscita nostalgia e provoca identificazione in soggetti che non hanno di meglio cui aggrapparsi. Il cinema popolare, che in passato dialogava con il pubblico, oggi è diventato un oggetto senza più popolo, per parafrasare quanto scrive Emiliano Morreale in L’invenzione della nostalgia. La moda trashista odierna, che da anni ha il suo ideologo e sommo sacerdote in Quentin Tarantino, si propone da una parte come madeleine generazionale e nostalgica, e dall’altra come controcultura di massa per un generazione che quel cinema, quella cultura non ha vissuto in diretta.
 
Ora, non è che si stava meglio quando si stava peggio, quando c’era Pauline Kael che veniva a dirti che Corman e Kubrick erano spazzatura. Solo che oggi il cerchio si è chiuso. Ci aggiriamo tra le rovine di un cinema che non esiste più, illudendoci stupidamente che la Storia si ripeta e sia prevedibile, che il trash di ieri sia l’arte di oggi, anche se non usiamo più questa parola. Ma dov’è, per usare le parole della Kael, “il gesto sovversivo portato oltre, i momenti di eccitazione sostenuti ed estesi a nuovi significati”? Il trash ha reso innocuo il cinema, lo ha ridimensionato, rimpicciolito.

Oggi ci resta solo da misurare la distanza tra una cultura gerarchizzata e elitaria come quella della Kael, e una eclettica ed espansa come la nostra. La differenza è che allora si potevano impugnare Kubrick o Corman per combattere contro il perbenismo snobistico delle Pauline Kael. Mentre oggi la sola idea di opporre qualcosa a qualcos’altro fa solo sorridere: c’è posto per tutti, nel sistema culturale o nel pantheon del cinefilo illuminato, per Lav Diaz come per Quentin Tarantino, per Apichatpong Weerasethakul come per Bruno Mattei. E quindi non c’è posto per nessuno, e niente significa più nulla.