L’elefante è nella stanza, impossibile non vederlo. C’è una tendenza nel cinema anglofono sugli adolescenti che non è più lecito trascurare: replicanti cui non si velano più gli occhi nello scoprire che i ricordi sono stati loro impiantati, sono figli di nessuno, senza passato e senza domani, fragili come foglie di un albero pronte a staccarsi al primo soffio di vento. Non li si può odiare e non li si riesce ad amare. Sanno vestire bene, sono educati, non alzano mai la voce e quando scoprono che respirare non equivale a vivere al massimo emettono un urlo, ma lontano da chiunque, in mezzo al niente. Un urlo esistenziale, più che mai esistenziale, come quello dei protagonisti di Non lasciarmi e di Sleeping Beauty, un urlo che risuona dentro stanze vuote o in mezzo a un bosco, che non è una richiesta d’aiuto ma solo espressione d’impotenza. Non sono giovani arrabbiati, perché non hanno niente da difendere e niente contro cui lottare, non sono autolesionisti, perché non sono in grado di sentire nulla, semplicemente aspettano, muoiono giorno dopo giorno, dolcemente, in maniera compita, senza farsi domande.
Cloni, orfani o figli di adulti che hanno smarrito le istruzioni per l’uso, crescono soli in camere dalle pareti di legno, silenziose e moquettate, arredate con gusto, mai troppo buie e mai troppo luminose, possono fare tutto quello che vogliono e non fanno niente, sono gli ultimi esistenzialisti che la precarietà della vita e degli affetti ha trasformato in fantasmi. Anche i due protagonisti di Restless sono fantasmi d’adolescenza, belli, delicati, eleganti, pallidi e soli, senza amici se non quelli immaginati, senza ricordi se non quelli lasciati dalla morte altrui. La morte qualcosa di inconoscibile, non temuta, nemmeno ambita – solo guardata come ci si guarda in uno specchio quando non ci si riconosce. La malinconia dei loro sorrisi è quella di una pace trovata senza lotta, il loro amore un vuoto da riempire.
Il film è per tutti quelli che vorrebbero svegliarsi una mattina e trovare un assortimento di abiti firmati nell’armadio, per coloro che desiderano essere sorpresi dalla prima neve e dai tramonti, dai riflessi nell’acqua e dallo stormire delle fronde come fosse la prima volta, per coloro che sognano di essere protagonisti del film della propria vita senza sentirsi attori, senza la consapevolezza che esiste un direttore della fotografia che li circonda di luci calde e autunnali per dare sostanza alle loro emozioni. La sensazione di essere diversi convive con la voglia di essere uguali a tutti gli altri, il disagio diventa anestesia e passa dai protagonisti al film. Van Sant farà forse il miglior cinema Indiewood dei nostri tempi ma è sempre cinema Indiewood: una falsa alternativa al mainstream per tutti coloro che sono cresciuti pensando che Avril Lavigne facesse punk e American Beauty dicesse cose importanti sulla vita. È Love Story senza le differenze di classe; è Harold & Maude con Sufjian Stevens al posto di Cat Stevens; è il mélo al tempo degli emo. Ci sono momenti di poesia (la notte di Halloween, non a caso) ed è lecito versare qualche lacrima, alla fine, più per compassione e tenerezza, perché a volte siamo tutti un po’ sentimentali. Ma in fondo non è che un altro film sul non saper amare la vita, perché tutta questa morte, tutti questi funerali e cimiteri sono lì solo per mettere l’uno nelle braccia dell’altro, un alibi per l’assenza di personalità. Certo, solitudini che si incontrano, ma è una mistificazione che solitudine significhi non avere niente da condividere a parte il proprio vuoto.
A nessuno importa quale canzone suoneranno al proprio funerale o di che colore saranno i confetti sul tavolo. Chi muore giovane un tempo moriva soldato, oggi può aspirare al massimo a vivere da condannato.
Restless, regia di Gus Van Sant, Usa 2011, 91’