A uno come Todd Haynes, il domestico inteso come personale, circoscritto, intimo, ha sempre fatto girare la testa. Perché la sua capacità di raccontarlo in modi diversi rispetto al significato ispirazionale, lo porta dritto a film spesso imperfetti ma tremendamente colmi di affascinanti pulsioni. Era un horror interiore il lontano Safe, alla ricerca, letteralmente, della fenomenologia nichilista insita nel vivere all’occidentale. Era ovviamente un melodramma domestico il successivo omaggio a Douglas Sirk Lontano dal Paradiso e, a ben guardare, anche il Dylan raccontato in I’m Not There è un viaggio tra gli aspetti meno divini e più personali della rock star.
Perennemente innamorato di un modo di fare cinema rigoroso, meticoloso e pianificato, Haynes non poteva che approdare finalmente ai soleggiati lidi delle tv via cavo, spesso unico scenario credibile per attori e registi non allineati o curiosi, un pista ormai ben tracciata e sempre più percorsa che sta portando un certo cinema a farsi TV. Nel caso in particolare, lo studiato mecenatismo HBO gli consente di nutrire la propria fascinazione per determinate modalità narrative e di messa in scena ridondanti e opulente. E allora si imbarca in questo Mildred Pierce, miniserie in cinque puntate (da 60 minuti ciascuna), tratta dal romanzo omonimo di James M. Cain (1941). Haynes era preoccupato di non ripetere le stesse deviazioni nella trasposizione che portarono il film di Curtiz (in italiano Il romanzo di Mildred) a essere pesantemente criticato dallo scrittore americano e dunque si mantiene fedele all’originale, senza però ripetere l’opera di campionamento frame-by-frame realizzata con Far From Heaven.
Lo spirito è quello, come ben descrivono le parole stesse del regista, di una “revisione dei classici di genere come accadeva nella New Hollywood degli anni ’70”. E, infatti, è proprio grazie alla volontà di mantenere una visione il più possibile reale e multipolare, che il regista assembla una super squadra di transfughi del grande schermo (Kate Winslet e Guy Pierce sono gli absolute beginners della scuderia HBO), capace di garantire la qualità necessaria alla produzione. Perché Haynes gira senza compromessi stilistici, senza dovere e volere sacrificare nulla alle esigenze del piccolo schermo (di nuovo la pista che parte dal cinema e arriva alla TV, letteralmente una nuova forma espressiva) che anzi ne aumenta le possibilità, per via di quel dover ogni volta tirare, chiudere e di nuovo riaprire le fila del discorso. Il risultato non è forse quel capolavoro di cui hanno parlato alcune testate statunitensi ma di certo un domestic drama vibrante che fa dell’abbondanza narrativa e tecnica il suo punto di forza e, al contempo, il ventre scoperto.
L’occhio di Haynes è deliziato dal trionfo tecnico e artistico, particolare dopo particolare, dettaglio dopo dettaglio, che trasforma il racconto e il suo esistere da un piano fittizio a una realtà “altra”, dove non esistono cattivi ma soltanto emozioni soffocanti, allo stesso modo del ritmo della narrazione, deliberatamente brachicardica e scandita dall’efficace soundtrack originale di Carter Burlwell. Opulenza, grandeur, lussuria, nella fotografia e nella messa in scena, per descrivere quella lurid passion (dove “lurid” in inglese allude a un essere così sfacciato da creare quasi imbarazzo) di cui è spesso permeata questa storia pressoché interamente declinata al femminile. Ovvio che sia impossibile (ma il pensiero non deve neppure averlo sfiorato) e stancante mantenere equilibrio e coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore: diventa una prova fisica, un campo scuola che prende forma tra i territori del camp e quelli gothic, e che brillantemente evita lo stagno della soap.
Mildred Pierce, miniserie tv in cinque parti, regia di Todd Haynes, USA 2011, 308′