“Non puoi aspettare di avere grandi poteri per prenderti delle grandi responsabilità”. Da questo assunto parte l’avventura di Dave, teenager medio se non mediocre, inguainato nella tuta da sub del paladino Kick-Ass perché stufo di fare da spettatore (o da vittima) alle piccole angherie quotidiane dei sobborghi newyorkesi. Grazie a Youtube, al caso e a un’ostinazione fisica rasente al masochismo, diventerà un simbolo per i suoi concittadini, finendo però invischiato nella spietata guerra tra un boss mafioso e una famigliola di fanatici mascherati (papà ex-poliziotto e figlia undicenne cresciuta a pistole e kung-fu) in cerca di vendetta.
Se i supereroi si prendessero la briga di esistere davvero sarebbero un manipolo di psicopatici intenti a fare i conti con le conseguenze fisiche e sociali delle loro azioni: è un concetto più volte balenato di recente sul grande schermo e divenuto asse portante in Watchmen, dove però risultava schiacciato dall’inevitabile semplificazione delle profondità sconfinate del testo che la mano pesante e ambiziosa di Zack Snyder si è impegnata a gestire. Matthew Vaughn, invece, ha preso sulle spalle il compito di un abile e divertito mestierante dell’azione cinematografica, portandolo a termine con lodevole equilibrio tra gli ingredienti. Può sembrare azzardato usare il concetto di “giusta misura” nella recensione di un action-comedy in cui una bimbetta con una parrucca viola massacra delinquenti a colpi di pistole, katana e improperi, ma proprio una paradossale “giusta misura” è il pregio principale riconosciuto alla produzione fumettistica di Mark Millar, tra cui la recente serie DC all’origine del film. Lo scrittore scozzese è infatti fautore da vent’anni di una valida sintesi tra le steroidee gesta di molti eroi a fumetti, soprattutto di casa Marvel, e l’indole filosofica, ambiziosa e cupa dei migliori volumi di Alan Moore, Neil Gaiman e di un certo Frank Miller. Una via iperrealista e auto-consapevole, in grado di sposare l’azione giocosa senza rinunciare a una certa complessità, spogliando i personaggi da ipertrofie eccessive e rivestendoli spesso con l’ironia bruciante. Dalla fedeltà a questo spirito riparte il Kick-Ass cinematografico, che diverte per il dinamismo visivo e la forte dose di trovate narrative, collocandosi intelligentemente nel mezzo tra verosimiglianza e astrazione ludica, quel che basta da un lato per non svilire l’interesse dello spettatore e dall’altro far suonare datate e bacchettone le lamentele di violenza diseducativa mosse da certi osservatori guidati dal decano Roger Ebert.
Si è parlato un po’ dappertutto di echi tarantiniani, forse per un paio di utili prestiti da Morricone, ma l’orizzonte di Kick-Ass si accontenta della coerente amalgama di una semplice ibridazione piuttosto che mirare al chirurgico e rischioso assemblaggio di membra visive richiesta dal pastiche postmoderno di cui Tarantino è nume tutelare. Più laborioso ragno radioattivo che geniale scienziato prometeico, Vaughn si preoccupa di dare forma cinematografica al lavoro di Millar optando per una fotografia fedele alle brillantezza accesa della pagina disegnata, ma ben più ancorata al proprio medium della “grafica filmata” di operazioni come Sin City, 300 o The Spirit, forse più coraggiose ma oramai stucchevoli (in Kick-Ass non manca l’ormai classica sequenza-calco delle vignette grafiche, ma breve e perfettamente contestualizzata). Soprattutto, nell’ormai nutrito filone ironico sui vigilanti in calzamaglia, il film si distingue a sorpresa per lo spessore umano dei personaggi, facendo fluire l’effetto parodico soprattutto dall’imbarazzo provato dal protagonista stesso per la propria inadeguatezza al ruolo che si è scelto. Laddove il Green Hornet di Gondry e Rogen falliva per la pretesa un po’ snob di essere sberleffo creativo e bamboccesco ad un genere inflazionato, la pellicola di Vaughn la spunta per la scelta di essere parte integrante del genere, sorridendo sfacciata per la chance di giocare, ancora una volta, ai supereroi.
Kick-Ass, regia di Matthew Vaughn, USA 2010, 117’