Singolare destino, quello del nono lungometraggio di Orson Welles: sebbene fosse uno dei film preferiti dallo stesso regista, e nonostante il premio speciale al ventesimo festival di Cannes, non ha goduto, né al momento dell’uscita né in seguito, un’attenzione adeguata da parte della critica. Non parliamo poi del pubblico: negli Stati Uniti non venne praticamente distribuito, mentre in Italia qualche cinephile dai capelli argentati testimonierà di averlo visto in un passaggio televisivo a un’ora antelucana, molti e molti anni fa. La proposta della Sinister Film/Cecchi Gori Home Video (già “responsabile” di altri avventurosi recuperi, da Powell & Pressburger ai B-movies anni Cinquanta) diventa perciò una buona occasione per rivedere (e riconsiderare con maggiore attenzione) un film che in quanto a ricchezza tematica e complessità formale costituisce, insieme a F for Fake (1975), il capolavoro della tarda maturità wellesiana.
Falstaff è l’ultimo tassello (se si esclude l’incompleto – e in parte perduto – Merchant of Venice del 1969-70) di un’ideale “Ciclo Shakespeariano” che comprende anche Macbeth (1948) e Otello (1952). Come i due film precedenti, anch’esso conosce sia una prima versione sotto forma di allestimento teatrale (1) sia una produzione (ispano-elvetica in questo caso) alquanto povera, dove Welles ha modo di rivelare tutto il suo ingegno di artigiano del cinema: dagli attori sistematicamente sostituiti da controfigure nei controcampi, alle scene in esterni recitate in piedi su grandi praticabili in legno per nascondere i profili delle case del XX secolo, fino alla locanda ricostruita in un garage dallo stesso Welles nelle vesti di architetto-scenografo. E se in Otello il montaggio era stato un modo per occultare le difficoltà di una realizzazione avventurosa, in Falstaff è probabilmente il primo passo cosciente verso quella sistematica esplorazione delle possibilità “musicali” della moviola, che raggiungerà il culmine con i successivi “saggi cinematografici”, nei quali Welles si divertirà a mescolare i materiali più eterogenei per illuminarli sotto una nuova luce.
Da questo punto di vista, anzi, Falstaff ha molte più caratteristiche in comune con F for Fake che con le precedenti trasposizioni shakespeariane: l’intera sceneggiatura del film non è altro che una madornale (ma accuratissima) operazione di remediation a partire da materiali di Shakespeare. Estrapolando e legando fra loro brani dell’Enriade e delle Allegre comari di Winsdsor (con qualche prestito dalle Chronicles of England di Holinshed), Welles si mantiene da un lato assolutamente fedele alla lettera del Bardo, dall’altro fornisce a questo materiale un significato nuovo. A cominciare dai protagonisti della vicenda, che non saranno più Enrico IV, illegittimo sovrano d’Inghilterra, e il principe Hal, suo figlio ed erede al trono, bensì il “padre putativo” del futuro sovrano, ossia l’anziano e corpulento sir John Falstaff, dedito alla buona tavola, al buon vino e alle donne. Allo stesso modo, la guerra che oppone Enrico IV agli aristocratici ribelli guidati da Henry “Hotspur” Percy passa sullo sfondo, mentre viene in primo piano il rapporto di amicizia tra Falstaff e il giovane Hal. Un’amicizia che il principe tradirà in nome della Ragion di Stato, rinnegando il vecchio sodale venuto a rendergli (rumorosamente) omaggio il giorno dell’incoronazione, e obbligandolo a tenersi ben lontano da Palazzo. Falstaff morirà di crepacuore e in solitudine, nella vana attesa di una convocazione privata a Corte.
Perché Falstaff è anche e soprattutto, come gli Amberson un quarto di secolo prima, un film sulla fine di un mondo: l’Inghilterra arcaica, la Merrie England medioevale (2) che viene soppiantata dalla modernità. Falstaff è l’incarnazione perfetta di questa stagione storica (e spirituale), ed è per questo che la sua scomparsa ha il sapore amaro della fine di un’ epoca. Evidentemente era questo l’aspetto della vicenda che più doveva avere affascinato Welles, da sempre intento a raccontare storie su “paradisi perduti”. Non solo. Vale la pena ricordare l’interesse del regista per i testi seminali della Modernità Occidentale, da Montaigne (che leggeva “letteralmente ogni settimana, come la gente legge la Bibbia”) a Cervantes (del quale cercò per oltre un ventennio di tradurre sul grande schermo il Don Chisciotte, lasciandolo tuttavia incompiuto) allo stesso Shakespeare: tutti testimoni e allo stesso tempo artefici del passaggio da un paradigma culturale ad un altro.
Passaggio che Falstaff rende benissimo nella sua divisione in due parti. La prima procede a tutta birra sui binari della slapstick (3) (si prenda ad esempio la beffa ai pellegrini di Canterbury, con il tradizionale repertorio di corse a perdifiato e mazzate in testa; oppure l’arruolamento della truppa, quasi uno sketch dei fratelli Marx) e persino del musical à la Busby Berkeley (le scene alla locanda, con la macchina da presa che “coreografa” i movimenti degli attori; la vestizione di Hotspur, ritmata da continui squilli di tromba). La seconda, invece, è l’esatto contrario: statica, teatrale, austera, dove la parola la fa da padrona e alle facezie si sostituisce la presenza tangibile, costante della morte. In mezzo, a fare da cesura, la sequenza più famosa del film, la battaglia di Shrewsbury.
Giustamente ricordata come uno straordinario tour de force tecnico-ritmico (sette minuti di inquadrature man mano più bervi, accompagnati unicamente o quasi dalla bella partitura di Francesco Lavagnino), rappresenta anche il “farsi” della Storia attraverso gli occhi di Falstaff (e di Welles): l’eleganza dei cavalieri e dei fanti che marciano compatti e ordinati sotto un sole splendente si trasforma subitamente in un vorticoso e insensato esplodere di brutalità, un indistricabile groviglio di corpi che, sprofondati nel fango, si impegnano pervicaci ad annientarsi a vicenda. La sequenza è ben più di un semplice pezzo di bravura: essa coniuga il massimo dell’astrazione (l’orchestrazione “musicale” delle inquadrature) con il massimo della concretezza (il sangue, i morti, il fango, i rantoli), dando corpo a una vera e propria “visione del mondo”, alla quale lo spettatore, spaesato, finisce per aderire, non riuscendo più a distinguere un esercito dall’altro, ma solo una massa indistinta di uomini in armatura che se le danno di santa ragione.
Val la pena di ricordarlo: il “barocchismo” e il “virtuosismo” che vennero (vengono?) spesso imputati a Welles non sono mai qualcosa di fine a se stesso, ma strumenti al servizio della narrazione. E anche della messa in scena, come nella gestione dello spazio nell’inquadratura: o è insufficiente (e Falstaff/Welles sembra talvolta “incastrato” fra i bordi del quadro) o eccessivo (le grandi sale gotiche del Palazzo Reale, nelle quali si muove microscopico lo stesso Welles, in un opprimente campo totale). Così come l’alta tenuta figurativa è garantita dal bianco e nero ad alto contrasto di Edmond Richard (futuro cinematographer per Bunuel), che dà vita a composizioni cromatiche di grande suggestione (la corsa di Falstaff e compari travestiti da pellegrini fra gli alberi della foresta o i soliloqui di Enrico IV/John Gielgud sotto le arcate del Palazzo).
Infine, bisognerebbe spendere qualche parola sugli attori, aspetto mai secondario nei film di un autore-attore come Welles. Anche nel casting sembra dominare la logica dell’accostamento, meglio se insolito: un grande attore shakespeariano come Gielgud si oppone, con la sua recitazione pesantemente accademica alla prorompente fisicità del Falstaff wellesiano; strepitosi caratteristi come Walter Chiari (Silenzio) e Alan Webb (Shallow, sua la battuta chiave del film: “the days that we have seen”, rimembranza nostalgica di un passato vicinissimo eppure ineluttabilmente trascorso) dividono la scena con i grandi interpreti del cinema d’autore europeo (Jeanne Moreau/Doll Tearsheet e Fernando Rey/Worcester). E su ogni cosa si stende la grande abilità dell’orchestratore-artigiano-Autore Welles, che amalgama il tutto e ci consegna uno dei suoi film più intensi e personali, fortunatamente ancora da (ri)scoprire.
Note
(1) Una prima versione andò in scena, con la produzione del Mercury Theatre, già nel 1939, con il titolo Five Kings. Successivamente è stata ripresa e rielaborata da Welles per una messa in scena dublinese del 1960, questa volta con il titolo Chimes at Midnight. Questa versione è quella più vicina al film del 1966, che ne riprende anche il titolo (Falstaff è il titolo della versione internazionale del film distribuita da Harry Saltzman; il titolo della versione spagnola è invece Campanadas a Medianoche).
(2) “Ogni paese ha la sua ‘Merrie England’ […] Shakespeare canta di quel ‘maggio perduto’ in molti dei suoi drammi” spiega Welles a Peter Bogdanovich (Orson Welles, Peter Bogdanovich, This is Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, HarperCollins, New York, 1992 [tr. it. Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano 1993]).
(3) Non sarà inutile qui ricordare l’ammirazione di Welles per le opere di Keaton, Lloyd, Laurel & Hardy e W.C. Fields (Welles, Bogdanovich,op. Cit., pp. 71-72)
FALSTAFF (Campanadas a medianoche), regia di Orson Welles, Spagna, Francia/Svizzera 1965, 115′ (Sinister Film)