TAKE SHELTER/Jeff Nichols
Ne parlano già come del nuovo Malick, mentre Malick viene consacrato erede di Kubrick. Paragoni forzati e fuorvianti: Jeff Nichols ha vinto la Semaine de la critique con Take Shelter ma, a parte le origini texane e la protagonista femminile (Jessica Chastain), ha poco da spartire con il regista di The Tree of Life. Al secondo lungometraggio, racconta il farsi incubo di un’inquietudine esistenziale: ossessionato dall’idea di una catastrofe imminente, un uomo (Michael Shannon, ormai specializzato in ruoli borderline) sperpera i propri averi e mette a repentaglio lavoro e famiglia per costruire un rifugio sotterraneo dove portare in salvo moglie e figlia in caso di tornado. Nichols sa come ottenere il massimo dell’effetto con il minimo dei mezzi e mette alla prova i sensi dello spettatore insinuando un senso di angoscia strisciante e palpabile: in tempo di crisi l’instabilità psicologica è lo specchio distorto dell’incertezza a livello sociale.
Emerso dalle fila della North Carolina School of the Arts con Craig Zobel (The Great World of Sound) e David Gordon Green (George Washington), Nichols ha esordito nel 2007 con Shotgun Stories, la storia dell’ostilità tra fratelli che, figli di madri diverse ma dello stesso padre, alla morte di quest’ultimo si rivoltano gli uni contro gli altri.
Ci sono la tradizione narrativa asciutta di Larry McMurtry e l’amarezza cupa delle canzoni di Townes Van Zandt (non è un caso che Nichols abbia collaborato al biopic sul cantautore texano, Be Here to Love Me); c’è un midwest rurale fatto di spazi sconfinati e radici profonde che incatenano gli uomini alla terra che li ha partoriti per poi lasciarli a seccare nel vento secco. La regia è solida, classicheggiante, con una predilezione per i piani fissi e le inquadrature nette. Più che Malick, Nichols ricorda i Rosenberg e i Ritt di Nick mano fredda e Hud il selvaggio: i suoi personaggi sono bombe a orologeria pronte a esplodere, le loro esplosioni tanto imprevedibili quanto devastanti. Il silenzio che li circonda è quello che anticipa la tempesta, il tumulto elettrico che si contrae sotto un cielo di nubi scure. Shannon, con il suo volto impassibile ma carico di pena e dolore interiorizzati è il protagonista ideale: un’anima desolata delle badlands, lo sguardo fisso sull’orizzonte con negli occhi non la paura ma la certezza che qualcosa di orribile sta per arrivare. (Alessandro Stellino)
JEANNE CAPTIVE/Philippe Ramos
Confrontarsi con Giovanna D’Arco sembra essere l’ambizione più alta di ogni regista francese: nel tempo la pulzella d’Orléans è diventata un motivo da interpretare, assottigliando il più possibile la novità della vicenda e lasciando libera la mera interpretazione, suggellando nella Santa Guerriera la forma del proprio cinema.
Philippe Ramos, di cui si era vista la sorprendente opera prima Captain Ahab (adattamento essenziale di Moby Dick) presentata alla Quinzaine di quattro anni fa, continua nella sua ricerca di un cinema che intreccia la letteratura e la storia, sintetizzando in immagini radicali e in scelte di montaggio precise l’essenza dei suoi protagonisti.
In Jeanne Captive usa la metafora della sparizione per presentare una Giovanna d’Arco solo apparentemente prigioniera: chiusa nella realtà materiale delle pietre di una fortezza, velata da una tenda che la tiene lontana dal fuoco e dal mare, legata dalle catene di un’angusta prigione. Jeanne è lì, sotto gli occhi di chi l’accusa, ma è anche altrove, come indicano le continue dissolvenze che la fanno scomparire e riapparire nel suo calvario verso il rogo.
Oltre la prigione, oltre la folla che si accalca per guardare, c’è la natura in cui Jeanne vorrebbe dissolversi, nel suo tentativo di fuga (o di suicidio iniziale). E le voci divine, che segnano l’immaginario della santa, sono rese dal regista introducendo la forza di una natura che concede la sua bellezza soltanto agli umili. Quando le onde perderanno la propria potente musica, questa si trasformerà in voce di Dio per donare libertà alla prigioniera. E nel bosco appare anche la figura di un Cristo viandante, dal volto irregolare di Mathieu Almaric e d’ispirazione dostoievskiana, che accompagna la sventurata vivendo sul suo corpo le stesse umiliazioni ma riportando le ceneri al fiume in un ultimo gesto salvifico.
Philippe Ramos talvolta sembra non fidarsi abbastanza delle sue immagini pulite e potenti, del corpo resistente di Clémance Poésy e si abbandona a musiche celestiali e ridondanti dissolvenze. Nonostante qualche sbavatura, la pulsione è ancora alta e si segnala come uno dei giovani autori francesi da seguire. (Daniela Persico)
MY LITTLE PRINCESS/Eva Ionesco
In Italia pronunci il suo nome e inevitabilmente il ricordo va a Maladolescenza. Eppure la figlia di Irina, che vanta una carriera d’attrice di tutto rispetto, ora passa dietro la macchina da presa per raccontare finalmente la sua versione del rapporto che ha intrattenuto con la madre/vampiro/artista. Caso limite di cannibalismo familiare nel quale la madre proietta sulla figlia la vita che non ha avuto, My Little Princess è soprattutto uno straordinario saggio di autobiografia cinematografica filtrata che a tratti sembra addirittura nutrirsi di fantasmi liberty e noir (con un occhio di riguardo per Brian De Palma, come ha rivelato la stessa regista). L’idea per il suo film, una delle numerose sorprese di una Semaine de la Critique in netta ripresa e che dall’anno prossimo passerà nelle mani capaci di Charles Tesson, nasce dopo la causa intentata alla madre per entrare in possesso di foto “molto pornografiche” scattate quando lei aveva appena quattro anni. Disperato tentativo di riprendersi la propria immagine, Eva perde la causa in tribunale. Avendo perso il diritto all’immagine, decide di conquistare il diritto alla parola. Fare un film sulle proprie avventure di musa e ninfa nelle grinfie della madre creatrice e distruttrice, diventa così uno straordinario percorso di liberazione che se a tratti, grazie alla maiuscola performance di Isabelle Huppert, evoca certe scene madri di Werner Schroeter, dall’altra s’inserisce con grande autorità nella tradizione del cinema dei figli. Non a caso la Ionesco ha rivelato che il suo progetto per un eventuale secondo film sarebbe proprio quello di seguire la bambina, la folgorante Anamaria Vartolomei, in un percorso doineliano. My Little Princess, in questo senso, si presenta con i crismi del film necessario, un’opera dove il cinema si rivela il luogo in cui la vita diventa, come per incanto, lo specchio della vita. E nello splendore del falso, la fuga di Eva che s’allontana dalla madre che la chiama a sé, diventa ipotesi di un’altra possibilità e di un’altra vita. Il cinema, appunto. (Giona A. Nazzaro)
MARTHA MARCY MAY MARLENE/Sean Durkin
Ci sono parole che definiscono un periodo storico, che ne colgono ansie e prospettive. Una di queste – con particolare riferimento alla cultura americana – è “libertà”. Per via del romanzo di Jonathan Franzen, certo, che frantuma il monolitico totem creato in otto anni dalla politica di Bush, e anche per via di alcuni film visti quest’anno a Cannes. Uno era Take Shelter di Jeff Nichols, che oscurava il concetto di libertà illuminando di luce iperrealista quello speculare di paura (l’altra parola chiave del decennio), e un altro era Martha Marcy May Marlene di Sean Durkin, discesa anche in questo caso speculare in una duplice costrizione familiare, sia borghese sia settaria.
Il film dell’esordiente Durkin è uno dei pochi dedicati esplicitamente, senza il filtro horror degli anni ’70, alle sette di giovani americani, panteisti e violenti, che continuano a nascere soprattutto alle estremità occidentali e orientali del paese (qui siamo nelle Catskills, vicino New York). È un racconto indie, minimale e delicato, ma sotto la fragilità dei volti femminili, dentro l’ideale di pace comunitaria raccontato, nasconde la follia che due generazioni fa ha fatto precipitare i sogni della controcultura nell’orrore della violenza omicida.
Figlia dell’individualismo da un lato e del trascendentalismo dall’altro, la comunità settaria altro non è che la coscienza sporca della democrazia, una deriva che funziona da anticorpo. Idealmente è il mondo dell’alterità, della rinuncia assolutista, opposto al capitalismo e all’idea stessa di libertà socializzata. Nei fatti, invece, con la carica sessuale e spirituale di un guru alla Charles Manson a forgiare corpi e menti, attraverso l’annullamento dell’individuo impone una forma di libertà intesa come estremo sacrificio: la libertà del tutto contro la tirannia del singolo, come in fondo dicevano anche le nostre BR.
E in questo modo finisce per esercitare un pressione pari a quella della normalità borghese, ingabbiando la protagonista del film, una giovane ragazza in fuga dalla setta e dal retaggio familiare, in una triplice identità, quella dei tre nomi del titolo (Marcy May conta come uno), che la abbandona sulla scena come corpo indefinito.
Non c’è fuga dove non si fa altro che passare da una prigione all’altra. La vera libertà, come afferma il finale bellissimo, incerto, spaventoso, questo sì degno di un horror, è accettare il dubbio come condizione esistenziale. E chiedersi, in definitiva, non quale libertà desideriamo, ma quanta paura e quanta solitudine siamo disposti ad affrontare. (Roberto Manassero)
17 FILLES/Delphine e Muriel Coulin
I nuovi terroristi? Un plotone di ragazzine che a sedici anni cercano una gravidanza con tutta la sventatezza e la folle determinazione dell’adolescenza.
17 filles, diretto dalle sorelle Delphine e Muriel Coulin, è ispirato a un fatto reale, letto sulle pagine di un giornalaccio come Cronaca vera (dove forse i nostri autori dovrebbero cercare nuove e semplici pulsioni della realtà al posto di scomodare le scatole di latte e il solito Berlusconi): in un liceo della profonda provincia americana, diciassette studentesse hanno scelto di rimanere incinta contemporaneamente, con in testa il progetto di una comunità di amiche e bambini. Da questo folle progetto prende corpo il film, che ambienta la storia in un liceo di Lorient, sulle coste bretoni.
La scelta della materia è forte, ma le registe evitano ogni trappola sociale, anzi si prendono gioco di un reportage televisivo che cerca consolidate quanto banali cause all’accaduto o della psicologa della scuola con i suoi consigli calati dall’alto. La soluzione sta altrove: in un corpo femminile che sembra l’unico terreno su cui potersi ancora scoprire. In un vuoto di prospettive, le ragazze sognano di essere più forti, di poter vivere con maggiore intensità la loro vita per aver messo al mondo un bambino e averlo cresciuto con le proprie amiche, in un momento dell’esistenza in cui l’amicizia è tutto.
Con scelte di regia consolidate (le morbide feste sulla spiaggia, le noiose giornate scolastiche, i pensieri raccolti nella propria camera), le due registe conducono l’esile narrazione sulle pance che crescono e sulle paure che affiorano senza mai prendere il sopravvento. Colei che ha condotto il piano la pagherà per tutte (o forse sarà salvata?), rendendo incompiuto il progetto complessivo ed evitando lo scontro dell’ideale con la realtà. Nell’inquietante immagine finale, in cui le ragazzine portano a spasso i loro neonati in carrozzine tutte uguali (purtroppo addolcita da una voce fuoricampo di cui non si sentiva la necessità), il gesto sovversivo viene riassorbito dal commercio e la rêverie di “un mondo delle bambine” scompare nelle chiacchiere in una piazza grigia e dalle borghesissime carrozzine blu. E dei neonati neppure l’ombra… (Daniela Persico)