ARIRANG/Kim Ki-Duk
Una segheria/officina sperduta in una landa desolata, coperta da una coltre di neve. Una delle tante isole del cinema di Kim Ki-Duk, all’interno della quale abita lo stesso regista, in una tenda montata dentro una stanza. Come in condizione di clandestinità, alla Ferro 3, dentro uno stabilimento in disuso, un edificio che rappresenta il cinema del regista coreano, fino a oggi. Nelle sue stanze sono immagazzinate locandine, sceneggiature e statuette vinte ai più importanti festival internazionali, coronamento di una carriera fatta di 15 opere girate in 13 anni. Un cinema che è giunto al capolinea, o a un punto di svolta, di cui Arirang è la testimonianza dolente. È la dichiarazione sofferta, in prima persona, di una crisi creativa ed esistenziale, seguita allo shock di un incidente avvenuto durante la lavorazione di Dream: un’attrice ha rischiato di morire impiccata, mentre si girava una scena di suicidio, se il regista stesso non fosse riuscito, precipitandosi fulmineamente su di lei, a sciogliere il nodo del cappio.
Kim Ki-Duk torna sulle location dei suoi vecchi film per farvi esplodere i colpi di una rudimentale pistola, un modo per fare tabula rasa della sua filmografia. Riguarda in lacrime la scena di se stesso nella parte del monaco che trascina la pesante pietra circolare sulla cima di un monte, alla fine di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. Un momento che riflette la sua condizione attuale e, allo stesso tempo, è il paradigma del suo cinema (o di quello che è stato), sospeso tra la cultura occidentale, la croce cristiana da portare come pesante fardello, e quella orientale, la ciclicità delle stagioni e della vita. La stessa canzone cantata dal regista, Arirang, allude a ferite ai piedi, rappresentate dai talloni screpolati della locandina del film, a seguito dell’attraversamento di un passaggio di montagna.
Arirang è un motivo tradizionale coreano che prende il titolo da un vocabolo dell’antica lingua nativa senza corrispettivi nel linguaggio moderno, ma è anche un film del 1926, una delle opere fondanti della cinematografia coreana. Per Kim Ki-Duk rappresenta il faticoso cammino della vita, in irta e ripida pendenza, a salire o a scendere. Un’esistenza che, nel suo caso, ha combaciato con l’arte e il cinema, con l’urgenza e l’ansia alla Fassbinder di girare film, e che ora si trova di fronte a un vicolo cieco. «Stop, Kim Ki-Duk, stop!» urla a se stesso nella disperata corsa in macchina del finale.
Difficile considerare Arirang con parametri estetici, si tratta piuttosto di un atto in sé, un “one man show” dove Kim Ki-Duk assomma tutti i ruoli possibili, regista, sceneggiatore, attore, produttore, operatore, montatore e tecnico del suono. È un grido di dolore, un lamento autentico, un film per dire che non si è più in grado di fare film.
Passando in rassegna la sfilza di premi ottenuti, il regista riflette sul suo non essere stato profeta in patria, sui mancati riconoscimenti al botteghino sudcoreano, a discapito della popolarità ottenuta nei festival di tutto il mondo. Chi assistette alla proiezione di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera a Locarno, non può dimenticare il pubblico gremito nella grande sala del Fevi, che tributò un’ovazione interminabile al regista. E la scena si è ripetuta a Cannes davanti a un Kim Ki-Duk diverso, improvvisamente invecchiato, appesantito e segnato nel volto. Un segnale dell’estrema sincerità e onestà con cui si è messo a nudo in questo suo lavoro. (Giampiero Raganelli)
CHATRAK/ Vimukthi Jayasundhara
L’indecidibile e l’indicibile. È su questo binomio, dalle sonorità che si confondono, metaforizzando così la labilità dei confini in tutte le cose, che ci pare poggi il cinema di Vimukthi Jayasundhara, giovane cineasta di spicco dello Sri Lanka, paese con una cinematografia d’autore altrettanto di spicco. L’inizio del suo nuovo film, Chatrak, presentato a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs, può del resto far pensare all’opera dominante della cinematografia di Weerasethakul, Tropical Malady, per l’inseguimento nella giungla – non privo di una certa ironia – di un doppio amoroso che è al tempo stesso un altro da sé e l’altro sé.
In Chatrak si abbandonano le sontuose immagini ancestrali de The Forsaken Land (La Terra Abbandonata, Camera d’Or a Cannes nel 2005, e uscito regolarmente nella sale francesi, al contrario della nostra terra culturalmente sempre più abbandonata), ma impregnate dell’attualità del conflitto Tamil che dilania lo Sri Lanka da anni. E si abbandona ancor più il mondo primordiale e metropolitano congelato di Between Two Words (Tra due mondi, presentato in Concorso a Venezia nel 2009), dalla struttura implacabile tanto nel montaggio che nella costruzione delle inquadrature, con sempre il conflitto Tamil incombente (e che nel frattempo ha visto uno sviluppo chiave con l’assassino del capo delle tigri Tamil).
Dopo il prologo nella giungla, questa volta si gira per le stradine, le vecchie case umide e cadenti, i grattacieli in costruzione di Calcutta. Dallo Sri Lanka all’India, quindi, anche se in questo riposizionamento geografico vi è una parte di camuffamento, di mimetismo: un tempo lo Sri Lanka si chiamava Ceylon e faceva parte del dominio britannico come l’India. E Jayasundhara, pur essendo nato nello Sri Lanka (a Ratnapura, nel 1977), ha studiato cinema in India, al F.T.T.I. di Pune. Between two words, fin dall’inquadratura iniziale – un picco d’alta montagna per metà visibile e per metà coperto dalle nuvole – esprimeva il suo essere tra due mondi, una sorta d’indeterminatezza perpetua, assieme un motore positivo e negativo (metaforizzato dalla bellezza della fiaba orale che può avere molteplici versioni). L’inizio era una successione d’inquadrature che parevano tagliate con l’accetta, grazie anche al montaggio serrato, dando allo spettatore la sensazione di trovarsi perennemente su una linea di frattura, un precipizio, un po’ come il protagonista all’inizio del film, sorto dal nulla delle acque marittime e inerpicatosi lungo un ripido pendio roccioso.
In Chatrak è invece la mobilità leggera della camera a dominare. Una telecamera curiosa che visita, scruta, gli interstizi, i meandri meno noti, magari imbattendosi in un vispo vecchietto che dice quello che altri non hanno il coraggio di dire, forse pensare. E’ solo un modo più morbido, aereo, di prendere per mano lo spettatore e condurlo nello stesso mondo dell’indeterminatezza degli altri due film del regista: l’architetto Rahul supervisiona la costruzione d’immense costruzioni che si profilano come giganteschi casermoni dormitorio destinati a far girare l’economia e ad accrescere ancor più l’anonimato e l’alienazione degli esseri umani. Ma sono anche sinonimo dell’odierna situazione d’indeterminatezza economica e sociale di quel paese (e che non manca di ricordare i palazzi demoliti e in costruzione di Still Life della Cina di Jia Zhang-ke), e non a caso la camera indugia in questi ambienti non finiti.
Non ci potrà essere che un solo finale, predestinato, ineluttabile: per l’essere del mondo concreto, l’architetto, la presa di coscienza equivale alla morte. Per l’essere del Mito – il fratello dell’architetto – non c’è posto in questo tipo di mondo, e non può che tornare nella foresta, nell’oblio. È la figura archetipica che ricorre nei film di Jayasundhara: negli altri due si aggirava dalle parti di un albero cavo. È “la” figura dell’immanenza che è, è stata e sarà sempre. Ormai, però, con sempre più difficoltà in questo mondo. Cinematograficamente invece, cambiano luoghi e stili, ma nel fondo, l’anima della musica – per fortuna – è sempre quella. (Francesco Boille)